Alberto Mattioli, La Stampa 18/4/2013, 18 aprile 2013
MORIN, OGNI GIORNO HA LA SUA PARIGI
Il Grande Vecchio è sempre giovane. A 91 anni si risposa, riceve dal sindaco Bernard Delanoë la medaglia della città di Parigi, esce dalla sua casa di rue NotreDame-des-Champs al sole in una bella giornata tersa di settembre e commenta così: «Mi bagno, felice, nel dolce sole di questa mescolanza sociale e generazionale. Sento che la vita mi ama ancora, che vuole ancora darmi della gioia, che sa ancora cosa fare di me».
Edgar Morin, sociologo e filosofo, ha insegnato La Méthode , come da titolo della sua opera maggiore. Ma una grande lezione di vita è anche il libro che ha appena pubblicato, Mon Paris, ma mémoire (Fayard, pp. 270, € 19), e speriamo che qualcuno lo traduca. È un’autobiografia senza rimpianti e senza nostalgie, dove la vita, tutta, passioni intellettuali e amorose, incontri politici e sessuali, cibo e libri, gatti e maestri, viene raccontata partendo dalle molte strade, tutte di Parigi, dove Edgar è nato, dove ha sempre vissuto e dove morirà.
La prima Parigi di Morin è quella in bianco e nero delle fotografie di Doisneau, delle canzoni di Edith Piaf, del bal musette accompagnato dalla fisarmonica, del Fronte popolare e delle prime ferie pagate. O, nel suo caso, lui figlio di un ebreo sefardita immigrato da Salonicco, della piccola dignitosissima borghesia commerciante. I traumi sono la perdita della madre, a dieci anni, e l’Occupazione, a diciannove. È nella Resistenza che Edgar Nahoum diventa Morin, il suo nome di battaglia. Ed è lì che cominciano i suoi guai di comunista eretico contro un partito ancora stalinista, ben prima che, con i fatti d’Ungheria, le fughe diventino esodo. Contestare la «cretinizzazione» zdanoviana passa anche per l’incontro a Parigi con Elio Vittorini: «Lo intervistammo per le Lettres françaises ; dichiarò nettamente che non si possono confondere il fronte della politica e quello della cultura, che quest’ultimo deve preservare la sua autonomia, che ai suoi occhi il comunismo era insomma protestante (critico) e non cattolico (dogmatico)». Parole sante ma vane.
Resta un po’ d’invidia per quella Parigi degli Anni Cinquanta e Sessanta, con tutti i grandi intellos concentrati nel raggio di poche centinaia di metri intorno a Saint-Germain-des-Près e alla Sorbona, anche se Morin non frequenta il cerchio magico della coppia SartreBeauvoir. È troppo impegnato non solo a interessarsi di tutto, ma anche ad amoreggiare, in un intrico apparentemente inestricabile di mogli, fidanzate, concubine, amicizie amorose e amori che finiscono in amicizia. Sono le pagine forse più divertenti di queste memorie incantevoli. Soprattutto per il candore sfrontato con cui Morin racconta, infischiandose del sessualmente corretto fin dai tempi in cui, liceale in piena tempesta ormonale, si era specializzato nella «manomorta» sul métro.
Sul Sessantotto, è critico. E in ogni caso alla spiaggia sotto il pavé, all’immaginazione al potere e alle altre idiozie dedica, giustamente, meno spazio che al fascino di «una deliziosa bambina bianca di nome Henriette» e «di Mixa, superba ed elegante, dagli occhi di un blu profondo»: le sue gatte. Intanto continua a cambiare lavoro, compagne e di conseguenza indirizzi: da Saint-Germain a Vanves e Rueil (le uniche due escursioni in banlieue), dalla rue Soufflot, sotto il Panthéon, al Marais ancora popolare e popoloso degli Anni Sessanta, poi rue de la Pompe, place d’Italie, di nuovo il Marais boboizzato, chic, gay e un po’ finto di oggi, Montparnasse, e ancora il Marais ma «alto», dove ancora ci sono le bancarelle per la strada e ti ci puoi fermare a fare due chiacchiere.
Parigi cambia, ma resta Parigi. Spariscono le Halles, ma il piacere di fare la spesa nei mercatini, tastando, annusando, contrattando, è sempre quello. E il metro continua a essere l’arteria che pompa il sangue della città, ogni linea con il suo carattere e i suoi caratteristi (un altro capitolo meraviglioso) e Morin che le conosce tutte perché sotto l’Occupazione, in città sotto falso nome, cambiava ogni volta percorso per accertarsi di non essere seguito dalla Gestapo.
Anche i parigini si trasformano, magari hanno la pelle più scura. Ma l’identità della città è più forte di chi ci arriva: «Un giorno, in un taxi, l’autista africano ha esclamato, parlando non so bene di chi: “Alors moi, ce mec, je l’emmerde!”. E io mi sono detto, affascinato: “Ci siamo, è dei nostri!”. Il bancone dei bistrot di Parigi, lui, non è cambiato, e questi luoghi dove si beve e si parla sono altrettanti piccoli forum della cultura parigina».
Morin continua a esplorare, a pensare, a leggere, a scrivere, ad amoreggiare, a mangiare: a vivere. Cittadino di una metropoli «neocosmopolita» ma che «resta radicata in un passato bimillenario», dove non c’è pietra che non racconti la Storia, o almeno delle storie. «LaParigi della mia giovinezza è stata assorbita, riassorbita, direi perfino abolita nella Parigi di oggi. Ma rimane nella mia anima la Parigi delle mie passeggiate, la Parigi del mio cuore, la Parigi dei miei amori morti e dei miei amici morti che restano e resteranno vivi in me finché mi resterà un soffio di vita». Una vita piena, intensa, vissuta e assaporata fino in fondo, nella gioia e nel dolore. L’ultima lezione del filosofo.