Gianni Santamaria, Avvenire 18/4/2013, 18 aprile 2013
SOLO COSSIGA E CIAMPI AL PRIMO TURNO
È ai blocchi di partenza la dodicesima corsa per il Colle più alto della Repubblica. Una scelta, quella del Capo dello Stato - garante della Costituzone e rappresentante dell’unità nazionale - che ha sempre riservato sorprese. E anche quando gli accordi erano chiari per un nome, questo scaturiva da una storia istituzionale recente o remota che andava la di là della personalità del prescelto.
O meglio quella che si vivrà da oggi è l’undicesima ’competizione’ vera e propria, visto che la scelta di Enrico De Nicola fu sui generis. A chiamarlo sul Colle nel 1946 come capo provvisorio dello Stato fu, infatti, l’Assemblea Costituente (che reiterò la scelta un anno dopo, quando De Nicola si dimise adducendo motivi di salute). A far propendere per il giurista di Torre del Greco fu un triplice dettato: al Palazzo più importante doveva andare un esponente liberale e gradito ai monarchici, ma anche alle tre maggiori forze politiÈ che del tempo (Dc, Pci e Psi). Infine, doveva essere meridionale, poiché quasi tutti i grandi leader di allora erano del Nord (in corsa ci furono, infatti, anche il filosofo abruzzese-napoletano Benedetto Croce e il politico siciliano Vittorio Emanuele Orlando). Tratti che - a parte l’attuale ricerca anche di un’opzione al femminile, allora non ancora spendibile - sembrano quelli di oggi. L’elezione per il Quirinale è stata, infatti, sempre il termometro della politica e della società italiana. Alcune scelte avvennero in momenti assai drammatici, come quella di Oscar Luigi Scalfaro, eletto il 25 maggio del 1992, due giorni dopo la strage di Capaci. Alcune permanenze sul Colle furono, poi, funestate da scandali e polemiche. Emblematica la vicenda di Giovanni Leone, costretto a dimettersi per accuse riguardanti presunti favoritismi alla sua famiglia (oltre che per le ombre del caso Lockheed). Se ne andò poco prima della scadenza naturale, nel 1978. Anni dopo ricevette pubbliche scuse dai radicali per l’ingiusta campagna nei suoi confronti. Il settennato di Leone fu forse quello più travagliato e iniziò, difatti, con le maggiori difficoltà nel voto. Furono ben 23 gli scrutini necessari a eleggerlo. Un record. Per Saragat ce ne vollero 21, per Scalfaro e Pertini 16. Al primo colpo uscirono solo i nomi di Carlo Azeglio Ciampi e Francesco Cossiga. Mentre ce ne sono voluti quattro per Luigi Einaudi, Giovanni Gronchi e Giorgio Napolitano. E nove ne occorsero nel 1962 per eleggere Antonio Segni. Leone è anche il presidente che ha ottenuto meno voti in assoluto (il 52% dei 996 presenti e votanti). In questa graduatoria primeggia Pertini con l’83% (forte dell’appoggio delle sinistre), seguito da Gronchi, Cossiga e Ciampi.
Gli uomini sul Colle hanno anche avuto sempre a che fare con le stesse urgenze che hanno preoccupato l’ultimo, Giorgio Napolitano. Come le innumerevoli crisi di governo che hanno funestato la storia repubblicana. Einaudi , ad esempio, si dovette misurare con la legge elettorale. Non con il Porcellum da riformare. Ma fronteggiando le violente polemiche che nel 1953 caratterizzarono la presentazione e il fallimento della cosiddetta ’legge truffa’. La presidenza Gronchi, invece, caratterizzata dai primi segnali di disgelo della Guerra Fredda e finita - dopo il sanguinoso episodio del 1960 delle proteste di piazza a Genova - con il primo centrosinistra.
A dare una sferzata nell’immaginario collettivo alla figura presidenziale fu Sandro Pertini. Seguito dal ’picconatore’ Francesco Cossiga. Che alla fine scelse di dimettersi poco prima del termine del settennato, dopo aver fronteggiato una minaccia di ’impeachment’ dell’allora Pds. Arrivò Scalfaro l’uomo del ’non ci sto’ e delle polemiche con Berlusconi. A un socialista e a due democristiani (le legge dell’alternanza tra un uomo di sinistra e un moderato è stata sempre una regola non scritta dell’elezione), seguì poi un profilo non scelto in seno ai partiti e tra le solite cariche politiche (presidenti dei due rami del Parlamento, ministri), bensì da una riserva di uomini di Stato come la Banca d’Italia: Carlo Azeglio Ciampi. Governatore ne era stato tra il 1945 e il 1948 anche l’economista Luigi Einaudi, che però - a differenza di Ciampi - era stato anche senatore del Regno e ministro. Con lui si è assistito anche a un revival del sentimento nazionale, culminato - sotto il successore Napolitano nel 150° dell’Unità d’Italia. Da oggi si cerca una nuova personalità che la incarni.