Vittorio Emanuele Parsi, Avvenire 18/4/2013, 18 aprile 2013
LA BOMBA SALAFITA
A cavallo della fine dello scorso millennio, al-Qaeda era il nome che esprimeva sinteticamente i pericoli peggiori legati alla deriva violenta dell’islamismo politico radicale. Oggi la parola che evoca scenari analoghi e per molti aspetti più inquietanti è "salafismo".
Dalla Siria, insanguinata da una pluriennale guerra civile, al Mali, dalla Libia al Sinai, dal Corno d’Africa all’Afghanistan, le formazioni che si ispirano alla visione più antimoderna e reazionaria dell’islam, e alla sua pedissequa e violenta declinazione politica, stanno conquistando terreno. La loro predicazione intollerante, intessuta di rozze semplificazioni e pratiche violente, sta rapidamente conquistando terreno, a scapito di altre più antiche organizzazioni come i Fratelli Musulmani. Dietro questo straripante successo sta il flusso gigantesco di soldi messi a loro disposizione da Qatar e Arabia Saudita, ovvero dalle due monarchie la cui legittimazione è garantita proprio dallo stretto intreccio con questa versione estremamente conservatrice della predicazione di Maometto. Sono i governi delle due monarchie del Golfo, tra loro sottilmente rivali eppure saldate da un patto inscindibile cementato proprio dalla comune ’religione di Stato’, ad aver pianificato e attuato la diffusione massiccia e capillare del ’ritorno alle origini’ come via principale per il riscatto islamico.
La loro azione politica è stata incoraggiata dalle stesse capitali occidentali, che combattono le formazione jihadiste in mezzo mondo e considerano alleati affidabili e partner economici sempre più rilevanti le due ricche monarchie petrolifere. A distanza di molti decenni sembra che l’Occidente stia incorrendo nel medesimo errore che, ai tempi dell’invasione sovietica dell’Afghanistan, fece ritenere una buona strategia l’assicurare sostegno alle milizie jihadiste e talebane che si battevano contro l’Armata Rossa. Anche allora la mediazione saudita (e pakistana) fece sì che i rischi impliciti di una simile opzione venissero colpevolmente sottovalutati. Il risultato fu l’11 settembre e il dilagare planetario del virus qaedista.
Oggi la situazione è, se possibile, ancora peggiore. Da un lato la loro scelta di agire tanto all’interno quanto ai margini della nuova legalità post-rivoluzionaria (in Egitto, in Tunisia, in Libia) rende estremamente difficile un’efficace azione di contrasto politica, giudiziaria e militare di questo nuovo fenomeno. Dall’altro, l’aperto sostegno che Arabia Saudita e Qatar assicurano alle formazioni militari che combattono sui fronti ancora aperti della Siria e del conflitto israelo-palestinese garantiscono a queste ultime un protagonismo sempre più marcato e ingombrante. Ciò che complica ulteriormente la situazione è proprio il fatto che la duplice natura – civile e militare – delle formazioni salafite rende molto osmotico il confine tra la loro dimensione politica e quella marcatamente violenta. Del resto, il rifiuto di una strategia esclusivamente e apertamente terroristica, fa passare in secondo piano l’essenza violenta, in quanto intollerante, della loro predicazione, che sta già contribuendo in maniera tragica e fattiva alla deriva sempre più radicale e settaria del quadro politico arabo e islamico. In modo per nulla paradossale occorre d’altronde sottolineare come fosse ben più facile contrastare l’azione esplicitamente terroristica di al Qaeda, rispetto a quanto non accada oggi con un movimento che si richiama apertamente a una dottrina religiosa posta a guardia e sostegno delle monarchie saudita a qatariota.