Massimo Fini, L’Europeo /4/2013, 18 aprile 2013
L’INQUIETO CHARMEUR
Quando la salma di Vittorio De Sica è stata portata fuori dalla basilica di San Lorenzo fuori le mura, dalla gran folla che assiepava il piazzale antistante è venuto, spontaneo, un applauso. La stessa cosa era successa, pressappoco un anno fa, per Anna Magnani.
Perché De Sica aveva in comune con la Magnani questo (e solo questo, perché per il resto non è possibile immaginare persone tanto dissimili): che aveva saputo conservare, a 73 anni suonati, il contatto e il rapporto con la gente. Snobbato negli ultimi tempi dagli intellettuali di casa nostra, Vittorio De Sica manteneva, da uomo di spettacolo quale è sempre stato, un magnetismo eccezionale con il pubblico. Per questo la sua morte è stata uno scandalo. Abbiamo cercato di ricostruire un ritratto di De Sica, come attore, come regista e come uomo, attraverso le parole degli amici e degli uomini di cinema e di teatro che più gli sono stati vicini nella sua lunga carriera. Con Mario Mattoli abbiamo affondato lo sguardo negli anni ormai lontanissimi e storici in cui De Sica debuttò in teatro. Con Ercole Graziadei, amico di famiglia ed estemporaneo produttore di Ladri di biciclette, Sergio Amidei (sceneggiatore di Sciuscià) e Roberto Rossellini abbiamo ripercorso gli anni gloriosi ma difficili del neorealismo. Con Luigi Comencini e Alessandro Blasetti il De Sica dell’età di mezzo. Con Alberto Sordi e Carlo Ponti gli ultimi anni. Eppure c’è un lato della sua personalità che, pur affrontato assieme ai suoi amici, tuttora ci sfugge: il gioco. De Sica era un grande giocatore. Era tanto conosciuto nei casinò di tutta Europa che bastava firmasse un foglio di giornale perché i croupier gli facessero credito. Come tutti i veri giocatori, era un perdente. Il vero giocatore, consciamente o meno, vuole solo perdere. Chi conosce gli ambienti dei casinò sa che chi gioca, chi gioca sul serio, lo fa sull’onda di lontane, profonde inquietudini: è mosso da una segreta angoscia. Dietro il gioco c’è sempre qualche “vizio assurdo”. Qual era il “vizio” che, dietro il suo eterno e benaugurante sorriso, lacerava Vittorio De Sica? Questo è un mistero che noi non siamo riusciti a infrangere, che neanche i suoi più intimi amici conoscevano e che il grande maestro del neorealismo si è portato nella tomba.
MARIO MATTOLI – È il produttore di Za-bum, una famosa e fortunata rivista teatrale degli anni Trenta che diede a De Sica fama nazionale. Con De Sica, Mattoli ha prodotto anche alcuni film.
Una sera del 1930 capitai al teatro Olimpia di Milano. E assistetti a una scena straordinaria. Vidi alcuni giovani attori, Amelia Chellini, De Sica, Francesco “Checco” Bissone e Umberto Meinati, tutti bravissimi, che recitavano in un teatro vuoto. Contai gli spettatori: erano nove, sì, nove di numero. Turbato e incuriosito, la mattina dopo mandai a chiamare l’amministratore della compagnia, che era il marito della Chellini, il quale mi confessò che, di lì a pochi giorni, la compagnia avrebbe dovuto chiudere. Mi venne quindi l’idea di prendere quel nucleo di giovani attori e di metterli insieme con altri colleghi più famosi, che erano Camillo Pilotto, Nino Besozzi, Ermanno Roveri, Rina Franchetti, Pina Renzi. Nacque così Za-bum n. 8 (con la sigla Za-bum io avevo realizzato in precedenza altri sette spettacoli). Ebbero subito un successo travolgente, e De Sica, in particolare, riuscì a farsi molto valorizzare.
Quando ci lasciammo dopo anni di vicissitudini e di trionfi, De Sica era stato visto da centinaia di migliaia di persone. Ecco perché mi ha sempre molto amareggiato che abbia in seguito cercato ostentatamente di dimenticare quel periodo. Se ne vergognava. Io mi chiedo perché. Za-bum era, è vero, una rivista, ma una rivista di tipo particolare, che utilizzava solo attori di prosa e che aveva sempre un siparietto dedicato alla prosa. Inoltre ritengo che come attore De Sica abbia dato il meglio di sé nelle parti comiche e grottesche. Aveva una comicità intuitiva eppure estremamente raffinata, mai buttata lì. L’altro De Sica mi convince molto di meno. Quando si metteva a recitare sul serio era enfatico, declamatorio, insincero. Era autentico solo quando era comico. A dire il vero, trovo una certa insincerità anche in quello che è considerato il periodo migliore di De Sica regista: il neorealismo. Il neorealismo è stato per De Sica e Roberto Rossellini un modo, molto intelligente, intendiamoci, e molto raffinato, per far quattrini speculando sull’esaltazione della povertà. Ladri di biciclette e Miracolo a Milano sono, sì, bei film, ma vi sento suonare dentro, di quando in quando, qualcosa di falso.
ERCOLE GRAZIADEI – Avvocato di professione, si improvvisò produttore per permettere a De Sica di fare Ladri di biciclette e Miracolo a Milano, fra i migliori film del regista e del cinema italiano.
Non si comprende De Sica, l’uomo e il regista, se non ci si ricorda che è nato povero, che viene dalla fame. E arrivato al neorealismo per questa strada. E anche la sua posizione politica si è sempre esaurita in questo: nello stare dalla parte degli indigenti. De Sica non è mai stato, come invece altri artefici del neorealismo, Cesare Zavattini per dirne uno, politicamente impegnato, nel senso almeno che comunemente si da a queste parole. Anche per questo, a un certo punto della sua vita, sotto la pressione di tortissimi condizionamenti, si è messo a fare quei film commerciali che gli sono stati tanto rimproverati. Ma De Sica sapeva aver coraggio al momento opportuno, quando faceva qualcosa in cui credeva. Prendiamo Ladri di biciclette. All’inizio non lo voleva far nessuno. De Sica bussava alle porte dei produttori e tutti lo cacciavano: perché nel film non c’erano donne, non c’era amore, non c’erano intrighi, c’era solo la bicicletta, e della bicicletta nessuno voleva sapere. A un certo punto, comunque, fu lì lì per combinare con un produttore anglosassone, Gabriel Pascal. Poiché Pascal voleva che il protagonista fosse americano, De Sica chiese Henry Fonda. Pascal pretendeva invece di imporgli Clark Gable, un attore tutto acqua e sapone. De Sica rispose: «Gable ha la faccia del vincitore e io non lo voglio». Così andò tutto a monte. Ma io vedevo che De Sica era gravido dell’opera che voleva fare, che soffriva, che smaniava, che si sarebbe ammalato se non si fosse sgravato. Così radunai i miei pochi risparmi, mi improvvisai produttore e assieme a Cesare Cicogna gli demmo i fondi per fare il film. Neanche durante la lavorazione tutto andò liscio. Il film era in anticipo sui tempi. Solo così si spiega come mai un uomo intelligente come Amidei abbandonasse a metà la lavorazione e perché lo stesso autore della novella da cui Ladri di biciclette era tratto, Luigi Bartolini, si dissociasse dall’opera.
Anche quando il film finalmente uscì avemmo un mucchio di grane. Sono note le polemiche che scoppiarono dopo Ladri di biciclette. Il film fu accusato di denigrare l’Italia. L’Osservatore Romano chiese che venisse sequestrato per «offese alla morale e alla religione». Un sottosegretario allo spettacolo (Giulio Andreotti, ndr) scrisse che «i panni sporchi vanno lavati in famiglia». E il nostro ambasciatore a Londra impedì che gli inglesi potessero vederlo. In realtà, agli inizi, Ladri di biciclette e Miracolo a Milano furono due insuccessi. Riuscimmo a malapena a fare il pari delle spese. Ma De Sica era contento lo stesso perché si era finalmente sgravato di due opere che gli stavano a cuore. Era felice. E io ero felice per lui. Come uomo aveva un gran cuore. Non è vero, come dice qualcuno, che fosse furbo o che fosse ipocrita. Aveva semplicemente molto forte il senso della realtà e del possibile. Povero di origine, qualunque cosa lo potesse riprecipitare nella miseria lo terrorizzava. Ma aveva cuore. Non per nulla, da buon italiano di vena araba, è sempre riuscito a mantenere rapporti affettuosissimi con tutte e due le sue famiglie, con tutti i suoi figli. Era patriarcale in questo. A prezzo di sforzi enormi ha fatto sempre due Natali, due Pasque, due primi dell’anno. A un certo punto della sua vita si è trovato a mantenere quattro famiglie: la sua con Maria Mercader, quella della Rissone, quella del fratello, quella della sorella. Non sapeva dire di no, non voleva mai dispiacere a nessuno. E c’era qualcuno che ne approfittava. Mi ricordo che, quando abitava in via Oriani a Roma, c’era un povero che si appostava davanti a casa sua, e come vedeva uscire De Sica gli si accostava e diceva con tono drammatico: «O mi dai mille lire o oggi mi sparo». E lui regolarmente gli dava le mille lire.
Era un lavoratore infaticabile. Un uomo che non sapeva che cosa volesse dire la parola vacanza. La prima vacanza della sua vita la fece con me nella Pasqua del 1949 ad Amalfi.
Tornando ai suoi film, a me pare che la cosa più bella l’abbia fatta ne L’oro di Napoli, un film ingiustamente bistrattato dalla critica, in una scena di gioco, la sua grande passione e la sua malattia. In quella scena De Sica fa la parte del nobile decaduto che gioca con il figlio del portiere. E siccome è pollo, ingenuo e candido, perde, perde con un bambino di dieci anni! Ecco, lui, De Sica, s’è descritto tutto intero in quella scena.
SERGIO AMIDEI – Fu lo sceneggiatore di Sciuscià, il primo film neorealista di De Sica. Sceneggiatore preferito di Roberto Rossellini, è uno degli artefici del neorealismo.
Era un uomo duro, estremamente forte. Sì, sotto il suo sorriso, dietro la sua bonomia c’era molta forza, molta durezza, molta tenacia. De Sica era tutto il contrario di quanto appariva. E non dico questo in senso malevolo perché non si può andare avanti in un mondo terribile come quello del cinema se non si è forti.
Non dimentichiamo che era ciociaro, e dei ciociari aveva appunto la durezza e niente affatto, invece, l’indolenza dei romani. E non per nulla ciociari sono moltissimi uomini di cinema, basta pensare ad Anton Giulio Bragaglia, a Marcello Mastroianni, allo stesso Alberto Sordi (e a Nino Manfredi, ndr). Fu il grande attore Renato Cialente a farmi notare quanta energia e quanta determinazione c’erano in quell’attorino brillante, che pareva eternamente legato alla sua parte di “bei giovane” e di bon vivant.
E questa forza si vedeva in quella che, secondo me, resta la qualità più eccezionale e tipica del De Sica regista: riusciva a fare recitare anche i paracarri. Fece recitare Lamberto Maggiorani, che era un operaio della Breda, e che ne ebbe un tale choc che, a metà lavorazione, restò a letto per cinque giorni. In Ladri di biciclette, ha fatto ridere e piangere quel bambino, Enzo Staiola, come ha voluto. Ci sono attrici, oggi famose, che nei suoi film sono straordinarie e che, dopo di lui, non hanno più imbroccato una parte. De Sica era un magnifico maestro di recitazione, anche perché veniva dalla scuola del primo cinema, dove i registi erano anche attori. Di Sciuscià ricordo le interminabili riunioni che facevamo in via Po’, a Roma: con De Sica, con Adolfo Franci (un intellettuale, un uomo di grande cultura al quale De Sica era legatissimo), con Cesare Giulio Viola. E mi ricordo anche di quando andammo a vedere il carcere minorile di Porta Portese. Di fronte a quelle sbarre orrendamente attorcigliate, a quei bambini che stavano dietro, ai loro grandi occhi slargati dalla paura e dalla miseria, De Sica, in un momento di commozione e di sincerità, disse: «Gli italiani impareranno». Era veramente convinto, sinceramente convinto, che una volta visto il film gli italiani avrebbero levato dalla faccia della terra quell’orrore. Il carcere minorile di Porta Portese è ancora lì.
LUIGI COMENCINI – Diresse De Sica in due film: Pane, amore e fantasia e Pane, amore e gelosia.
Conobbi De Sica nel 1946 attraverso un film: Sciuscià. Io ero diventato da poco critico cinematografico dell’Avanti! e uno dei primi film che mi capitò di recensire fu appunto Sciuscià. A Milano, allora, si sapeva poco di quello che accadeva a Roma, dove il cinema era già in fermento. L’Italia era distrutta dalla guerra: Milano e Roma erano due città lontanissime. Andai a vedere Sciuscià al primo spettacolo con una certa indifferenza. Noi giovani che, negli anni Trenta, ci eravamo fatti una cultura cinematografica a dispetto del fascismo, ammiravamo soprattutto il cinema francese, dal quale aspettavamo anche nel dopoguerra grandi cose. Invece la proiezione di Sciuscià mi sconvolse e capii di colpo che una pagina nuova si era aperta nel cinema italiano. Per la prima volta un film era lo specchio della realtà, uno specchio ironico, affettuoso, ma anche spietato. Scrissi tutto questo sul giornale: più che una recensione m un atto di fede. L’indomani mi arrivò un biglietto di De Sica che mi ringrazia va. Era a Milano e andai a trovarlo all’Olimpia dove recitava in una commedia musicale. Appena entrato in teatro lo intravidi fra le quinte che cantava e ballava con quell’eterno sorriso che gli aleggiava sulla bocca. Per me fu uno choc, non riuscivo a capire come quello chansonnier imbellettato potesse essere l’autore di Sciuscià. Compresi dopo che proprio questa era la sua forza, di avere fatto tutto, di conoscere a memoria il vaudeville e di amare i bambini. Questo gli permetteva di essere, allo stesso tempo, amaro e sorridente. La sua grande forza di regista di cinema era quella di venire dal teatro. La più grande difficoltà del regista cinematografico è quella di non avere il pubblico davanti, di non poterne captare gli umori.
De Sica, che aveva fatto teatro, teatro leggero per di più, era abituato ad affrontare il pubblico nel modo giusto, aveva un grande senso del pubblico. Sapeva, per esempio, che il pubblico non va aggredito e che l’autore deve sempre guardare con simpatia i suoi personaggi (una simpatia amara, se si vuole), anche se sono negativi. Di qui la tenerezza per le sue creature e anche la spietatezza, ma una spietatezza sempre ironica, sempre affettuosa. Dai suoi personaggi, De Sica cercava sempre di tirare fuori il paradosso, un difficilissimo equilibrio tra tragicità e comicità, tra gioco e dramma. Io considero De Sica il più grande regista italiano, anche se ha fatto tanti brutti film, perché non è stato capace di fermarsi al momento giusto. Un altro suo grandissimo talento era saper utilizzare i bambini, senza farne mai dei piccoli mostri fastidiosi. Con i bambini era fatato. L’ultima volta che lo incontrai fa appunto quando venne a fare la piccola parte del giudice nel mio Le avventure di Pinocchio. Era stanco e forse non ne aveva molta voglia e lo faceva più che altro per farmi un piacere. Prese posto con la sua toga sullo scranne altissimo. Gli misi di fronte Andrea Balestri, così piccolo che, per poterlo vedere, il giudice doveva farlo salire su una sedia. Alla vista del bambino che avevo scelto come Pinocchio cambiò completamente, si illuminò tutto, si divertì a recitare la scena e quando se ne andò mi disse: «Quel bambino va molto bene! È proprio Pinocchio».
ALESSANDRO BLASETTI – Recuperò al cinema il De Sica attore che era stato logorato dai troppi anni di ruoli “leggeri”. Lo diresse in Altri tempi, Il processo di Frine, lo, io, io... e gli altri.
Dovetti lottare duramente per avere De Sica con me in Altri tempi, nel 1952. La Cines, la casa di produzione, non voleva assolutamente sentire parlare di lui come attore. Lo consideravano finito. Su di lui gravava l’impronta di charmeur, di leggero, di bello che gli avevano dato i film di Mario Camerini. Quel personaggio, dopo tanti successi, era giunto a saturazione. E nessuno credeva che De Sica, come attore, fosse capace di far dell’altro. Io sì. Perché nel 1946 avevo avuto occasione di vederlo in una compagnia teatrale assieme alla Mercader, a Massimo Girotti e ad Anna Proclemer. Facevano Il tempo e la famiglia Conway. Avevo imparato a riconoscere in lui un attore capace di creare grandi caratteri. Così mi impuntai e alla fine ebbi ragione della Cines e ottenni De Sica. Subito dopo venne Il processo di Frine, che ebbe un grande successo e confermò che avevo visto giusto. La popolarità di Vittorio ebbe un tale soprassalto che, quando lo volli di nuovo per un altro film, sceneggiato da Cesare Zavattini, Amore e chiacchiere, successe esattamente il contrario di quanto era accaduto all’epoca di Altri tempi: nessuno voleva mollarlo e, oltretutto, costava carissimo. Ma lui si ricordò che gli avevo dato una mano in un momento non facile e venne a fare il film a un prezzo nettamente inferiore a quello di mercato.
L’attore De Sica era di una coscienza professionale assoluta, di una umiltà eccezionale. In fondo, quando io gli feci fare Altri tempi, lui era un regista che aveva già ricevuto due Oscar (per Sciuscià e Ladri di biciclette, ndr) consacrato da una fama internazionale. Eppure non me lo fece mai pesare. Seguiva con la massima attenzione tutto quello che gli dicevo. Mi ricorderò sempre che durante le pause della lavorazione, nei momenti in cui gli operatori dispongono le luci, mettono fuori le bandierine e i macchinisti preparano le macchine, De Sica, invece di fare come fanno tutti gli attori, e cioè chiacchierare, sghignazzare, fare il filo alle colleghe, estraniarsi cioè completamente dalla scena (salvo poi, una volta rientrati, sbagliare la battuta), se ne stava da parte, passeggiando su e giù con un foglietto, e ripeteva le battute per cercare il tono e il ritmo giusti. In tutti i film che ho fatto con lui non mi è mai capitato, dico mai, di dire stop e di dovergli far ripetere una scena. In realtà, quando recitava o dirigeva si trasformava completamente. Mentre nella vita quotidiana era, o poteva apparire, epidermico, un po’ semplicistico, superficiale, nel momento in cui scattava in lui Fattore o il regista cambiava di colpo, assumeva una profondità che cinque minuti prima non gli avresti minimamente attribuito. Ecco perché ritengo in torto coloro che dicono che il successo di De Sica si chiami in realtà Zavattini. No. Sarebbe addirittura blasfemo disconoscere i meriti e il lavoro di Zavattini, ma sarebbe altrettanto assurdo dimenticare che è stato De Sica a dare l’afflato umano, meridionale, e permettere una realizzazione artistica concreta ai personaggi e alle scene disegnate da Zavattini. Si è trattato in realtà di una simbiosi fortunatissima, che non so se si potrà più ripetere, e che ha dato al cinema italiano alcuni dei suoi più grandi capolavori. Se ripenso a certe sequenze di Umberto D. o di Ladri di biciclette, non ho nessuna difficoltà a considerarle all’altezza del miglior Charlie Chaplin. Quel Chaplin al quale, per uno strano fenomeno di mimetismo, De Sica aveva finito addirittura per assomigliare fisicamente negli ultimi anni di vita.
ROBERTO ROSSELLINI – Assieme a De Sica è uno dei padri del neorealismo. Era amico di De Sica da sempre («non riesco neanche a ricordarmi la prima volta che incontrai Vittorio»).
Ha pagato il suo successo duramente, con molte amarezze. Non ha avuto la vita facile. Quando facemmo quei film che sono oggi passati alla storia del cinema sotto il segno del neorealismo, noi, è bene ricordarlo perché oggi qualcuno finge di dimenticarsene, fummo bistrattati, maltrattati dalla critica, attaccati politicamente. Del resto, questo è il destino di chiunque anticipa qualcosa, di chi infrange certe abitudini, certi conformismi, certi comodi schemi: la gente si sente insultata e ti attacca. De Sica, in mezzo a tutta quella bufera, mi faceva un’enorme, infinita tenerezza, perché era un uomo con pochissime difese, con dei tremori e delle timidezze infantili. Era un ingenuo. Era un uomo capace di stupori, di straordinari, infantili stupori. Così, se qualcuno gli faceva del male, se ne meravigliava, ci rimaneva terribilmente male, ci soffriva. Ecco perché a me, che sono molto più cinico, faceva un’immensa pena vederlo in quella bolgia.
Quello che lo salvava, e che gli ha permesso di reggere, è stato il suo ottimismo di fondo. L’ottimismo era la sua sola difesa. Aveva una straordinaria capacità di cancellare e di dimenticare tutto il brutto e il marcio della vita. Gli ho conosciuto qualche piccola ira, ma mai del rancore. Aveva una grande, innata ironia, la capacità intuitiva di vedere sempre il lato comico, burlesco di tutte le cose, anche le più amare. Era un uomo straordinariamente piacevole, gradevolissimo da frequentare anche fuori del lavoro. È stato uno dei miei pochissimi amici, l’unico forse che io abbia avuto nel mondo del cinema.
ALBERTO SORDI – Ha prodotto con Vittorio De Sica Mamma mia che impressione!; è stato diretto da De Sica ne Il giudizio universale e Il boom. A sua volta ne fu il regista in Un italiano in America.
Era un uomo affascinante, allegro, disponibile, un gran compagno di gioco. Con lui mi sono fatto le più matte risate della mia vita. Insieme ci divertivamo come bambini. Mi ricordo che con lui avevo preso l’abitudine, quando camminavamo fianco a fianco, di dargli sulle spalle delle piccole spinte con la mano, per gioco. E lui rispondeva invariabilmente: «E daje Alberto, non me spigne, è tutta la vita che me spigni». Questo semplice scherzo ci faceva ridere per mezz’ora, come degli scolaretti.
Una volta per un pelo non la combinammo grossa. Si inaugurava lo stabilimento della De Laurentiis, una cosa colossale, e Amintore Fanfani era venuto a mettere ritualmente la prima pietra. De Sica era piazzato proprio dietro di lui. Allora io non resistetti e gli diedi una spinta, forte. De Sica perse l’equilibrio e il suo gran corpo andò a cadere sopra il piccolo Amintore. Ci fu un momento di gelo. Ma De Sica rialzandosi e aiutando il senatore a rimettersi in piedi gridò rivolto verso di me: «È stato lui, è stato lui, Sordi. Mi sta sempre a spigne. È tutta la vita che me spigne». E Fanfani si mise a ridere e tutta la folla si mise a ridere.
Io l’amavo, ecco, De Sica, gli volevo bene come un figlio a un padre. Non posso dimenticare che è stato lui a scoprirmi, il primo a credere veramente in me. Fu nel 1947. Io facevo alla radio I compagnucci della parrocchietta. Un giorno venne a cercarmi e mi disse: «Io ti sento, ti seguo». Mi propose di fare insieme un film. Mamma mia che impressione!, e da allora non ci lasciammo più. Siamo stati amici per quasi 30 anni. Quello che mi piaceva soprattutto in lui è che, nonostante avesse avuto una vita avventurosa e piena, non si era consumato, era ancora capace di emozioni, aveva conservato il gusto delle cose semplici, dei piaceri semplici.
Appena un mese fa eravamo insieme a Montecarlo: facemmo una capatina a Cannes per mangiarci una bouillabaisse. Be’, gli brillavano gli occhi dalla gioia. Il mare, un buon piatto, un amico a cui voleva bene bastavano a farlo felice. Sapeva prendere le cose. Se potesse fare, ora, un bilancio della sua vita De Sica potrebbe ben dire di non aver rinunciato a nulla. Ha avuto due mogli, tre figli, ha amato, ha corteggiato, ha giocato. Il gioco era la malattia che lo aveva colpito già da ragazzo e che non lo ha più lasciato fino alla morte. Ma pure il gioco era per De Sica, anche quando perdeva, e quanto perdeva!, cifre enormi!, un motivo di felicità, un’esplosione di energia. La resistenza di De Sica al gioco era leggendaria, era capace di stare seduto al tavolo dello chemin de fer 24 ore su 24. Aveva una “presenza” al tavolo, un aplomb, uno stile fantastici. Al tavolo del gioco veniva fuori il gran signore. Gli piaceva perdere. Più perdeva e più si eccitava. Io credo di essere stato uno dei pochi a farlo uscire vincente da un casinò. Accadde a Venezia qualche anno fa. Arrivavamo verso mezzogiorno, ci facevamo una bella mangiata alla Colomba e poi verso le due ci presentavamo al Lido. Poiché il casinò apriva solo alle due e mezzo, gli inservienti ci facevano entrare, ci davano due poltrone e noi dormivamo una mezz’oretta. Quando arrivavano, i primi giocatori facevano un balzo a vedere De Sica e Sordi stravaccati su due poltrone, che russavano beatamente. Be’, dopo lui cominciava a giocare. Siccome De Sica aveva sempre, come tutti i giocatori, almeno dieci minuti vincenti, che cosa facevo io? Lo prendevo di peso, lo sollevavo dalla sedia e lo portavo via fra lo stupore della gente. De Sica si vergognava un poco di queste mie intemperanze e allora improvvisava un piccolo show, guardava con occhi imploranti il croupier e diceva: «Mi porta via, mi porta via». Dopo però era contento di trovarsi qualche soldo in più in tasca. Fu felice quando andammo negli Stati Uniti a girare il mio Un italiano in America. Parte del film si svolgeva a Las Vegas. Lui se ne stava tutto il tempo, già truccato e imbellettato per le riprese, al tavolo di gioco. Quando avevo bisogno di lui, aspettavo che finisse il sabot e lo prelevavo dal tavolo così com’era. Finita la ripresa tornava a giocare. Nel mio film lui faceva, appunto, la parte di un giocatore che perde tutto e che, alla fine, preso dalla disperazione, infila, senza speranza, l’ultimo nichelino in una slot-machine. Per fargli vedere come intendevo che fosse girata la scena tirai fuori dalla tasca una monetina e la infilai senza pretese nella fessura; la macchina mi vomitò addosso centinaia di monetine. Allora De Sica alzò le braccia al cielo, mi guardò con occhi che scintillavano, scoppiò in una gran risata e disse: «Alberto, vana,’...», e se ne tornò a giocare.
CARLO PONTI – Ha prodotto molti degli ultimi film di De Sica fra cui La ciociara, che vinse un Oscar (dato a Sophia Loren, miglior attrice protagonista). E stato il produttore anche de Il viaggio, l’ultimo film di De Sica, uscito a Parigi, per una dolorosa coincidenza, proprio il giorno in cui il regista moriva in una clinica francese.
De Sica era un artista. Non era un intellettuale. Io ho fatto tanti film con intellettuali, con Jean-Luc Godard, con Francois Truffaut per dirne alcuni, e li conosco a fondo. Intellettuali lo si può diventare, artisti si nasce: o si è o non lo si è. De Sica Io era. Io l’ho sempre avvicinato. De Sica, a certi grandi pittori che ho incontrato nella mia vita, a Pablo Picasso, a Oskar Kokoschka. Ebbene, anche Picasso, per quanto strano possa apparire, non era un intellettuale. De Sica non aveva una grossa cultura di base. Non aveva una cultura libresca. La sua cultura derivava dalla realtà. Era un arricchimento quotidiano, continuo, costante. Aveva una straordinaria sensibilità per tutto quanto gli accadeva intorno: era un grande assimilatore. Era un medium fra la natura e lo spettacolo. Era un Mida: tutto quello che toccava lo trasferiva e lo trasformava in spettacolo. Proprio come uno scultore, aveva l’agilità e l’abilità di sbozzare la pietra e di farne venire fuori immagini. La sua pietra era la vita quotidiana.
È noto che De Sica faceva recitare, come si dice in gergo, anche i sassi. Se poi aveva la sorte di trovarsi di fronte grandi attori si arrivava al capolavoro. Non si preparava mai per i film, arrivava sul set senza sapere nulla. Ma una volta lì si trasfigurava, entrava in trance. Aveva un magnetismo innegabile. Vederlo dirigere era a sua volta uno spettacolo. L’ho visto girare, per esempio, a Napoli, in una grande piazza stracolma di gente. Ebbene, lui riusciva a far restare in religioso silenzio migliaia e migliaia di persone, meglio: migliaia di napoletani, che tacevano mentre dirigeva. Questo è un miracolo che ho visto fare solamente a Vittorio De Sica. Nella vita era un candido, un semplice. Lo dimostra anche la sua passione per il gioco. Abbiamo avuto tante discussioni per questo. Io non capivo, inizialmente, perché amasse soprattutto la roulette, il più freddo, il più meccanico, il più impersonale. Me lo spiegò: non era interessato alla psicologia del gioco, al rapporto fra giocatori, ma all’emozione, un’emozione diretta, immediata, brutale, da consumarsi in pochissimi secondi. Dal gioco voleva un sì o un no. Il resto non lo interessava. De Sica ha perso miliardi e miliardi alla roulette con il sorriso sulle labbra. Per questo dico che era un candido. Solo un candido può intestardirsi, e al limite rovinarsi, per queste cose. Era un personaggio lontanissimo dalla morte. Era incompatibile con la morte. Era un uomo vivo. Tanto è vero che dopo la malattia è rimasto lo stesso, identico. Sapeva di essere gravemente ammalato. Ma non ci credeva, non ci voleva credere. Gli pareva impossibile, gli pareva indecente che potesse esistere una cosa così brutta come la morte.