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 2013  aprile 18 Giovedì calendario

UN ERRORE CONSIDEREVOLE MA I CONTI VANNO RISANATI"

«È caduto un pilastro delle politiche di austerità: il fatto che ci sia un rapporto di causa ed effetto tra un debito alto e la crescita», riassume Paolo Guerrieri. La tesi di Kenneth e Rogoff di cui si erano innamorati non soltanto molti accademici e commentatori, ma politici del rango di Paul Ryan o George Osborne viene confutata in un momento importante, secondo tre autorevoli economisti italiani come Tito Boeri, Luigi Zingales e, appunto, Guerrieri. Che non esitano a chiamarlo un «errore considerevole». Questo non vuol dire, aggiungono, che il debito non vada ridotto.

Il tema degli effetti dell’austerità sulla crescita è controverso da anni, ma in Europa il rigore dei conti è diventata notoriamente la ricetta numero uno applicata ai Paesi precipitati nella Grande crisi del 2008: è la “via tedesca” scelta di comune accordo per uscirne e per salvare l’euro. Anche per curare questi Paesi - Italia compresa - da disavanzi e debiti tradizionalmente eccessivi.

Da un po’ di tempo a qualcuno è venuto il dubbio - il Fmi è tra di essi - che c’è qualche problema con i modelli “classici” che vengono usati per calcolare la reazione del Pil ai tagli alla spesa o all’aumento delle tasse. Oppure per valutare il peso del debito pubblico sulle economie. E per giustificare, in sostanza, l’austerità come cura maestra. E il dibattito che si è scatenato in questi giorni attorno al famoso saggio di Kenneth Rogoff e Carmen Reinhart, “La crescita ai tempi del debito” del 2010 è un momento importante di questo dibattito. Se il debito è basso, sostengono, i Paesi possono contare su un Pil del 3 o 4%. Se invece supera il 90%, il Pil precipita a -0,1%. I Paesi con un debito alto sono condannati a non crescere mai.

La notizia è che questo studio, come hanno dimostrato Thomas Herndon, Roberto Pollin e Michael Ash, è anche il risultato di «seri errori» per citare gli stessi autori. Che se la stanno dando di santa ragione con Rogoff e Reinhart dalle pagine del Financial Times e di altre riviste. I tre dimostrano infatti che per i Paesi con debiti sopra il 90% del Pil la crescita media non è negativa (-0,1%) bensì positiva, del 2,2%.

Ovviamente nel dibattito che ha assunto immediatamente una coloratura politica, non poteva mancare il principe degli economisti neo-keynesiani, Paul Krugman, che dalle colonne del Nyt si gode da giorni la caduta di un pilastro ideologico delle politiche di austerità e bastona anche le repliche (un po’ deboli, per la verità) di Kenneth e Rogoff che insistono che gli errori non inficerebbero le conclusioni di fondo, e cioè che il debito pubblico fa male alla crescita.

Sondando altri economisti di rango, la vicenda assume sfumature diverse, meno ideologiche, sicuramente. Luigi Zingales, ad esempio, premette di non aver letto ancora il saggio che ha messo in discussione il rapporto causa-effetto tra alto debito e Pil, ma a giudicare dal dibattito che ne è scaturito, l’economista di Chicago parla di un «errore imbarazzante», che riguarda «anche il modo in cui sono state pesate determinate osservazioni». Zingales dubita che «siano stati volutamente manipolati i dati», avanza l’ipotesi che sia stato un errore «a volte accade che si controllino maggiormente i dati che rappresentano elementi che non ti aspetti» - ma ne trae una conclusione importante. «Il caso dimostra che è fondamentale l’accesso ai dati utilizzati nei saggi», che insomma «sia possibile verificare la veridicità di un’analisi». In effetti una parte del dibattito si è concentrata sul fatto che per molto tempo i dettagli del saggio dei due economisti non fossero del tutto accessibili. Attenzione, però, avverte, a trarne conclusioni sbagliate: «Tutto ciò non vuol dire certo che un alto livello del debito faccia bene all’economia».

Anche Tito Boeri ritiene che l’errore ci sia e che non sia secondario, ma invita a riflettere sul fatto «che anche se l’effetto del debito è minore di quanto sostenuto dai due economisti di Harvard, comunque c’è». È un bene che esista un dibattito accademico su queste questioni, osserva l’economista della Bocconi. Ma Boeri è molto meno convinto di molti suoi colleghi che il saggio abbia avuto un peso politico: «non credo che Rogoff e Reinhart abbiano influito molto sull’opinione pubblica tedesca..», ironizza.

Paolo Guerrieri ricorda che «la fragilità del saggio Rogoff-Reinhart era nota da tempo», ma «per la prima volta si è dimostrato che non esiste alcun rapporto di causa ed effetto tra un debito elevato e la crescita». Una tesi che per l’economista del College of Europe di Bruges «implicava che i Paesi con un debito sopra il 90% non potessero azzardare politiche fiscali compensative». La confutazione «è importante perché conferma che sono le condizioni di contesto dinamico che determinano il rapporto tra debito e crescita». Un altro colpo, conclude, «all’idea che l’unica ricetta per questa crisi siano le politiche di austerità».