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 2013  aprile 17 Mercoledì calendario

BTP ITALIA, IL BOOM NON DEVE ILLUDERCI

Il successo dell’asta dei BTp Italia è un segnale incoraggiante, ma che non autorizza a sottovalutare i molti problemi che il Paese dovrà affrontare, quando finalmente si porrà fine allo stallo politico che dura ormai da due mesi. Sarebbe un grave errore considerarlo come una prova del fatto che possiamo ripetere l’esperienza belga e trarre profitto dai veti incrociati dei partiti. I titoli indicizzati all’inflazione collocati in soli due giorni sono dedicati soprattutto agli investitori italiani al dettaglio, che hanno dimostrato con le loro elevate richieste di essere ottimisti sulla solvibilità dell’emittente (salvo lo spread, tutto sommato modesto, rispetto al tasso tedesco) ma anche abbastanza pessimisti sul futuro potere d’acquisto dell’euro, dunque sull’efficacia della politica monetaria della Bce. Ma ci sono motivi ancora più generali per non cantare troppo presto vittoria. Il primo è che oggi il mercato dei titoli pubblici a livello mondiale è dominato dalla grande massa di liquidità che le banche centrali hanno generosamente immesso negli ultimi anni e, più recentemente, dalla decisione giapponese di attuare una politica particolarmente aggressiva di acquisto di titoli. Per avere un’idea della dimensione del fenomeno, basti ricordare che il programma di acquisti della Fed rappresenta circa un quarto delle emissioni lorde annuali del Tesoro americano, mentre gli acquisti della Bank of Japan dovrebbero superare le emissioni nette annuali di 15 miliardi di yen. Come conseguenza, gli operatori internazionali hanno già cominciato a sostituire una parte dei loro investimenti in Giappone, non solo per la rarefazione dei titoli pubblici determinata dalla banca centrale, ma anche per una comprensibile esigenza di diversificazione, dato il crescente rischio di svalutazione dello yen. Finora di questo spostamento hanno beneficiato soprattutto i Paesi europei del centro (compresi quelli come la Francia i cui fondamentali non sono particolarmente brillanti), ma è probabile che il flusso di acquisti si sia già esteso alla periferia. Un risultato positivo, naturalmente, ma bisogna sempre ricordare che investimenti spinti dalla liquidità piuttosto che attratti dalle prospettive concrete del Paese destinatario, possono cambiare direzione con grande rapidità, scegliendo sempre il momento meno opportuno per il debitore. Del resto, le cronache di questi giorni sono piene di segnali sull’eccezionalità della situazione indotta dalle politiche monetarie delle principali banche centrali. Basti ricordare il crollo del prezzo dell’oro dopo la frenetica corsa al rialzo degli ultimi anni o la notizia sui 250 miliardi di profitti ottenuti, secondo una ricerca del Financial Times, dai trader sulle merci, più della General Electric o dei sei principali produttori di auto del mondo messi assieme. È un segno del profondo malessere che ancora pervade le economie dei principali Paesi e che si manifesta in dati sull’attività produttiva e sull’occupazione che invariabilmente costringono a rivedere verso il basso le previsioni. O, se si preferisce, del fatto che le politiche monetarie finora hanno beneficiato molto più le operazioni finanziarie di ogni genere che non l’attività produttiva vera e propria. Il fenomeno è particolarmente grave per l’Europa. Mario Draghi ha confermato pochi giorni fa l’impegno della Bce a fare in modo che la moneta stampata a Francoforte si traduca in credito a imprese e famiglie, ma ha anche ammesso di avere poco spazio di manovra. Lunedì ha rincarato la dose, lamentando la «sconcertante mancanza di credito» alle piccole e medie imprese. Non ha fatto nomi, come usano i banchieri centrali, ma - guarda caso - l’Italia è proprio il Paese in cui il problema assume dimensioni ogni giorno più drammatiche. Basti ricordare che nell’indagine sul credito le imprese italiane che lamentano una carenza di finanziamenti rispetto ai loro piani di produzione è doppia non solo rispetto alla Germania, ma anche alla Spagna. E la differenza di tasso per le nuove operazioni è ormai di quasi due punti percentuali. Detto in altri termini, il successo dell’asta dei titoli pubblici italiani è una rondine che non fa primavera soprattutto perché oggi al centro della crisi non c’è tanto il debito pubblico, nonostante quello che pensano le vestali dell’austerità, quanto il finanziamento dell’attività produttiva. Gli andamenti divergenti della disponibilità di credito e dei tassi relativi non solo dimostrano che il meccanismo di trasmissione della politica monetaria non è più unitario, ma anche che per le imprese dei Paesi periferici, in particolare l’Italia, si stanno accumulano divari di competitività rispetto al centro, che già erano netti al momento in cui la crisi è iniziata. È per questi motivi che il successo dell’asta dei titoli così come in generale il basso livello degli spread (ma è tutto dire, se dobbiamo considerare come tali valori intorno ai 300 punti base) non autorizzano a ritenere che l’Italia possa ripetere l’esperienza del Belgio, che ha fatto segnare performance positive nei quasi due anni in cui è rimasto privo di un governo con una maggioranza parlamentare. L’Italia non è in una condizione in cui sia meglio affidarsi ad una sorta di pilota automatico: ha bisogno di politiche nuove, forti e capaci di agire nell’immediato. Cioè una rivoluzione rispetto al passato e rispetto ai tempi di minuetto che ancora echeggiano nel Palazzo.