Maurizio Ricci, la Repubblica 18/4/2013, 18 aprile 2013
Rischia di essere lo scandalo accademico del secolo. Ma, soprattutto, è un colpo durissimo alle fondamenta della dottrina dell’austerità: ovvero meno spese, più tasse, stringere, anche brutalmente, la cinghia, per ridurre deficit e debito, come premessa indispensabile per il rilancio dello sviluppo
Rischia di essere lo scandalo accademico del secolo. Ma, soprattutto, è un colpo durissimo alle fondamenta della dottrina dell’austerità: ovvero meno spese, più tasse, stringere, anche brutalmente, la cinghia, per ridurre deficit e debito, come premessa indispensabile per il rilancio dello sviluppo. Al centro della polemica, due fra i più prestigiosi economisti al mondo, Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff, di Harvard, e lo studio con cui, nel 2010, indicavano, sulla base di un’ampia comparazione storica, l’esistenza di uno stretto rapporto fra livello del debito pubblico e crescita. Più esattamente, quando il rapporto fra debito e Pil supera il 90 per cento (in Italia viaggiamo verso il 130 per cento) si apre la recessione: in media, storicamente, una contrazione dell’economia dello 0,1 per cento. Non è l’unico risultato a cui arrivano Reinhart e Rogoff, ma è quella semplice formula che ha fatto il giro del mondo, influenzando il dibattito politico sull’economia, negli Stati Uniti come in Europa. Solo che non è vero. Un gruppo di economisti dell’Università del Massachusetts-Amherst ha rifatto i conti e, sulla base della stessa serie storica di Reinhart e Rogoff, arriva ad una conclusione opposta: in media, storicamente, i Paesi con un debito superiore al 90 per cento non vanno in recessione. Al contrario, crescono del 2,2 per cento: un tasso non propriamente mozzafiato, ma, nelle condizioni in cui è, ad esempio, l’Italia, sufficiente a far venire l’acquolina in bocca. Come è possibile? Nessuno, tranne qualche giornalista maligno, si spinge a dire che due economisti del livello di Reinhart e Rogoff abbiano deliberatamente manipolato i dati. Avrebbero, però, commesso errori grossolani, anche per ricercatori assai più modesti. Uno è puramente materiale (“la maledizione di Excel” l’hanno subito definita colleghi comprensivi, riferendosi al software con cui, abitualmente, si compilano le tabelle sul computer): un errore di codificazione ha escluso completamente dai calcoli Paesi come Australia, Austria, Belgio, Canada e Danimarca. Un secondo errore, più scivoloso, è la decisione di escludere alcuni Paesi, in alcuni anni. Ad esempio, nel periodo 1946-51, gli autori considerano solo l’ultimo per la Nuova Zelanda (che, all’epoca, aveva un debito oltre il 90 per cento), quando il Paese registra una recessione del 7,6 per cento. Avessero considerato tutti e cinque gli anni, avrebbero registrato una crescita media del 2,6 per cento. L’errore è, infine, amplificato dal sistemazione di ponderazione dei risultati utilizzato dagli autori. Alle critiche, Reinhart e Rogoff hanno replicato con qualche imbarazzo, ammettendo l’errore di tabulazione e attribuendo l’esclusione dal calcolo di alcuni anni, per certi Paesi, alla mancanza dei relativi dati, al momento della stesura del loro saggio. Ma difendono il messaggio principale del loro lavoro, cioè il collegamento fra debito e crescita: «La crescita ad alti livelli di debito – dicono - è la metà del tasso di espansione che si registra ai livelli più bassi di debito». Che, però, non assomiglia affatto alla formula per cui, oltre il 90 per cento di debito rispetto al Pil, si va in recessione. E che è, per certi versi, anche un po’ ovvia. Paul Krugman si affretta a sottolineare che non è affatto detto che sia il debito a limitare la crescita. E’ probabile che avvenga il contrario: come sostengono, da tempo, gli economisti keynesiani, è la bassa crescita a mettere il difficoltà il bilancio pubblico e a far lievitare il debito, non l’opposto. La polemica è destinata, probabilmente, a durare a lungo nei circoli accademici, ma ha già avuto l’effetto di ridimensionare la credibilità scientifica degli appelli all’austerità, dalle due parti dell’Atlantico. La questione, in realtà, tocca gli Stati Uniti, prima dell’Europa, dove l’austerità, su spinta tedesca, ha più un connotato politico-morale che economico. Ma, anche in Europa i dubbi sull’efficacia dell’austerità sono crescenti. Tanto più che, nei mesi scorsi, l’altro caposaldo scientifico della dottrina dell’austerità era stato corroso dalla critica. Si tratta del lavoro di Alberto Alesina e Silvia Ardagna, che è il braccio speculare delle tesi di Reinhart e Rogoff. Come i due economisti di Harvard sottolineavano che l’alto debito porta alla recessione, Alesina e Ardagna sostengono che l’austerità porta alla crescita. Anche qui, sono i conti ad essere entrati nel fuoco della critica: Alesina e Ardagna guardano al disavanzo pubblico, ma non distinguono fra i casi in cui il disavanzo si è ridotto per l’austerità e quelli in cui è sceso perchè l’economia ha tirato di più. Ci ha pensato, infine, il Fondo monetario internazionale a pubblicare uno studio in cui si liquida l’ipotesi dell’”austerità espansiva” e si sottolinea che l’austerità, sotto forma di tagli alla spesa e aumenti di tasse (più i primi dei secondi, contrariamente alla tesi di Alesina), contrae, invece, l’economia. L’atteggiamento dell’Fmi è un buon termometro del mutare degli atteggiamenti verso la politica del rigore. Partito, ai tempi della crisi asiatica a fine anni ’90, con la ricetta dell’austerità ad ogni costo, il Fondo, di fronte alla crisi del 2008, ha progressivamente rovesciato la sua posizione, collocandosi su una posizione sempre più critica verso quello schieramento di alfieri del rigore, che va dall’opposizione repubblicana a Obama, fino al governo dei conservatori a Londra e al ventaglio di falchi dell’eurozona, guidato da Berlino. Il Fmi non rinuncia al risanamento di bilancio, ma ritiene che possa essere realizzato più lentamente, dando spazio a manovre per ravvivare la domanda, che alimenti una ripresa, la quale, a sua volta, riduce i disavanzi di bilancio. E’ l’avviso che, con toni inusualmente aspri, gli economisti di Washington hanno appena recapitato al governo di Cameron a Londra. E, dietro il quale, molti hanno visto un attacco indiretto alle strategie dell’eurozona: parlare a Londra perchè Berlino intenda.