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 2013  aprile 17 Mercoledì calendario

UNA DOTE DA 800 MILIARDI

Più di 800 miliardi di euro. A tanto ammonta la ricchezza finanziaria di tutti gli investitori istituzionali italiani non bancari messi insieme. Assicurazioni, fondi pensione, fondazioni bancarie, private equity hanno in mano una ricchezza immensa. Che potrebbe aiutare le Pmi. Morya Longo
Un tesoro che, secondo le stime del Sole 24 Ore, vale circa la metà del Pil italiano. E che sale a quasi 3mila miliardi di euro se alle loro disponibilità si sommano quelle delle famiglie. Insomma: all’interno dei confini nazionali esiste un patrimonio gigantesco, estraneo al circuito bancario, che potrebbe almeno in parte essere impiegato per finanziare o ricapitalizzare le imprese italiane. Per sconfiggere la crisi del made in Italy. Eppure, escludendo i BTp di cui tutti vanno ghiottissimi, i grandi investitori italiani preferiscono andare fuori dai confini nazionali piuttosto che investire in patria. Questo è il grande paradosso: tutti si lamentano quando le imprese delocalizzano la produzione, ma nessuno alza un dito se i grandi fondi italiani "delocalizzano" gli investimenti. Tutti se la prendono con le banche, che erogano credito col contagocce, ma nessuno guarda il resto del mondo finanziario nostrano: non meno ricco e non meno avaro con il made in Italy. Eppure gli strumenti per convogliare una parte di questa ricchezza sulle imprese esisterebbero: basterebbe copiare dall’estero. Per esempio i credit funds Usa: fondi chiusi, riservati agli istituzionali, che erogano credito alle Pmi. Per esempio i private placement. Investitori troppo esterofili Sono i numeri a parlare. Prendiamo i dati dell’Ania (non aggiornatissimi, ma significativi): solo il 2,5% del patrimonio delle assicurazioni è investito su obbligazioni aziendali italiane, mentre su analoghi titoli esteri è impegnato il 14,5%. Quasi sei volte tanto. Meglio va alle azioni nostrane, che attirano il 9,5% della "torta" assicurativa. Questo significa che dell’enorme ricchezza delle assicurazioni italiane – stiamo parlando di 494 miliardi – solo una piccola parte finisce alle imprese italiane sotto forma di credito o capitale. I grossi gruppi, come Generali, hanno team dedicati ai bond aziendali (anche privati): dunque finanziano le imprese. E tanti gruppi stanno aumentando gli sforzi. Ma nel complesso si tratta di gocce nel mare. Il potenziale sarebbe invece enorme. Stesso discorso per i fondi pensione italiani. Secondo i dati del Mefop, i fondi aperti investono il 56,5% del loro patrimonio in obbligazioni: di queste, però, solo il 31,1% sono italiane. E in gran parte si tratta di BTp. Tutto il resto è impegnato all’estero. Il 43,5% delle loro disponibilità è invece investito in azioni, ma qui la percentuale puntata sull’Italia è ancora più misera: appena il 3,3%. I fondi pensione chiusi sono ancora più "esterofili": il 23,6% del loro patrimonio è allocato sul mercato azionario, ma di questa quota solo lo 0,9% è destinato all’Italia. Briciole. Eppure all’estero i fondi pensione si comportano in modo ben diverso. L’esposizione sul mercato azionario locale dei fondi pensione in nessuno dei maggiori Paesi è inferiore al 45% del totale: negli Usa – per esempio – è circa al 70%. Questo significa che nei Paesi più sviluppati i fondi pensione forniscono "benzina" alle imprese del proprio Paese. In Italia solo gocce. Analogo il ragionamento per i fondi di private equity che – pur con tante pecche – in tutto il mondo acquisiscono le aziende per farle crescere e sviluppare. In Italia viaggiano con poca benzina locale. Perché nel nostro Paese gli investitori istituzionali foraggiano con parsimonia questo tipo di fondi. Secondo i dati Prequin gli investitori italiani hanno attualmente 13 miliardi di euro investiti nei fondi di private equity domestici. Si tratta dello 0,8% del Pil italiano. Anche in questo settore l’Italia si distingue per le "braccia corte": gli investitori tedeschi mettono infatti nel private equity locale 40,6 miliardi, quelli francesi 70,8 miliardi, quelli inglesi 108,1 miliardi. Credit funds o bond privati Non bisogna dunque stupirsi se in Italia il mercato finanziario non sia mai cresciuto: né quello malsano (per fortuna), né quello sano (purtroppo). Perché nessuno ci crede veramente: né le imprese, né gli investitori. Così la capitalizzazione di Piazza Affari arriva appena al 24,8% del Pil: questo fa della Borsa milanese la più piccola in Europa, escludendo quella greca. In Spagna, per intenderci, la capitalizzazione è pari al 42,5% del Pil. In Germania al 46%. Persino il Botswana ci batte: la sua Borsa vale il 27,4% del Pil locale. Eppure oggi, che le banche hanno chiuso i rubinetti del credito, servirebbe un mercato finanziario più sviluppato per concedere alle imprese valide fonti alternative di finanziamento. Basterebbe copiare qualche esempio dall’estero. Per esempio si potrebbero importare i "credit funds": fondi chiusi, riservati agli investitori istituzionali, che investono non in azioni o bond, ma concedendo credito alle Pmi. Anche indirettamente. Negli Usa questi fondi hanno 100 miliardi di dollari di crediti erogati alle Pmi. In Italia non esistono, anche se qualcosa di simile – si veda articolo a fianco – sta nascendo. Oppure si potrebbe creare un mercato dei "private placement" organizzato come negli Usa. Si tratta di obbligazioni aziendali emesse ad hoc per venderle alle grandi assicurazioni. E di altri esempi ne esistono a iosa. Basterebbe guardare all’estero, copiare e provarci: diverse soluzioni, messe insieme, potrebbero un giorno produrre quel credito alternativo per le Pmi che le banche non sono più in grado di erogare.