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 2013  aprile 18 Giovedì calendario

SCRICCHIOLA IL MITO DELL’AUSTERITÀ

L’ alto debito pubblico è una palla al piede della crescita economica? Forse no, o forse non tanto. Negli Stati Uniti una disputa accademica tra economisti sta diventando materia di dibattito diffuso, dilaga su Twitter, viene rilanciata nel mondo dalle agenzie di stampa. Si scopre che sono sbagliati i calcoli di un libro famoso, pubblicato anche in Italia: «Questa volta è diverso. Otto secoli di crisi finanziaria» (Il Saggiatore 2010).

Gli autori, il celebre Kenneth Rogoff e Carmen Reinhart nata Castellanos, docenti a Harvard, concludevano che quando in un Paese il debito pubblico supera il 90% rispetto al prodotto lordo, la crescita economica si azzera. Avevano rielaborato i dati di venti Paesi avanzati dal 1945 in poi. Ora altri tre economisti, della poco lontana università statale del Massachusetts, hanno scoperto due punti deboli in quel lavoro: un errore materiale e una ponderazione discutibile. Rifacendo i conteggi, i tre – Michael Ash, Thomas Herndon e Robert Pollin – dagli identici Paesi nei medesimi anni raggiungono un risultato assai meno persuasivo: un solo punto in meno di crescita dove il debito è oltre il 90%, rispetto a dove è tra il 60% e il 90% del Pil (ovvero 2,2% annuo contro 3,2%). Reinhart e Rogoff riconoscono l’errore, ma insistono che la differenza è significativa usando anche altre serie di dati, che prendono in considerazione più Paesi e più anni.

In poche ore, la polemica si è allargata a dismisura. Negli Usa ha estrema attualità politica, con la Camera a maggioranza repubblicana che sostiene l’urgenza di ridurre il deficit tagliando la spesa, mentre la sinistra preme su Barack Obama perché attenui l’austerità finché i disoccupati sono tanto numerosi.

Rogoff, consigliere di John McCain nella campagna elettorale del 2008 oltre che Gran Maestro di scacchi, è un repubblicano moderato. Il Premio Nobel Paul Krugman, capofila degli economisti di sinistra, si getta nella mischia a testa bassa come suo solito: pur non mettendo in dubbio la buona fede di Rogoff, gli rimprovera di perseverare nell’errore.

Facendo i conti anche lui sui soli Paesi del G-7, Krugman nota che la relazione tra debito e bassa crescita vale per Giappone e Italia, non vale affatto per la Gran Bretagna. Mentre Ash, Herndon e Pollin professano cautela, lui taglia netto: «La storia ci dice che sia l’Italia, sia soprattutto il Giappone, hanno fatto ingenti debiti a causa della bassa crescita, non il contrario».

In Italia non ne siamo tanto sicuri. Il nostro debito pubblico si gonfiò soprattutto negli anni ’80, quando l’economia non andava affatto male, 2,5% di crescita in media all’anno, contro il 2,4% scarso della Germania. E che sia un grave rischio, questo debito, lo abbiamo sperimentato in abbondanza prima nel 1992, con la lira, poi nel 2011, con l’euro. Se indebitarsi fosse sempre efficace, molti nostri governi sarebbero riusciti a mantenere le loro promesse.

Il dibattito tra gli economisti ferve, e continuerà. Il libro di Reinhart e Rogoff era piaciuto a molti per le parti sull’euforia finanziaria che porta alle crisi, e sulle illusioni con cui la gente si tappa gli occhi quando vi partecipa; resta valido anche se la correlazione stretta tra debito pubblico e crescita cade. Del resto il Fondo monetario internazionale, fino a ieri gran predicatore dell’austerità, oggi sostiene che in Europa rischiamo di averne troppa, anzi esorta la Germania a spendere un po’ di più.

Di risparmio ce n’è tanto nel mondo, ce n’è anzi in eccesso. Lo stesso Rogoff lo ha scritto più volte. E se i privati non investono, in una certa misura a questo risparmio è bene che attingano gli Stati. Il guaio è che con una finanza mondiale instabile forse solo gli Stati di cui i mercati si fidano, come gli Usa, possono continuare a indebitarsi senza rischio; mentre dell’Italia si fidano poco.