L’Europeo, n. 3, marzo 2013, 17 aprile 2013
CARA ORIANA, PREFERISCO ESSER ZITELLO
[Alberto Sordi]
C’ERA STATA LA FACCENDA della granatina con la panna, quando non so in quale articolo avevo scritto che non voleva offrirmi un’altra granatina con la panna, o qualcosa del genere, e malgrado fossero passati quattro anni non sembrava disposto a perdonarmi: inutilmente gli spiegavo che lo scopo del mio incontro era nobile. Non della sua presunta avarizia intendevo parlare, ma del suo personaggio, di ciò che rappresenta in questa Italia prospera e pia che lo ha eletto a suo sommo cantore.
Ripeteva che aveva molto da fare, che stava doppiando Mafioso di Alberto Lattuada, che stasera avrebbe dovuto partire per Salice Terme e: «Mi ha dato dell’avaro, mi ha dato. Siccome non ho colpe, né vizi, e non do noia a nessuno, e non appartengo a quella banda di signorini che si tingono gli occhi, voi giornalisti vi siete messi in testa di trovarmi un difetto e mi date sempre dell’avaro. E dite che mangio poco per risparmiare, che fumo le Nazionali per risparmiare, che bevo aranciate per risparmiare, una volta avete scritto perfino che risparmiavo l’esca nel pescare: prima di mettere il verme sull’amo, lo tagliavo a metà e infilavo in tasca la seconda metà. Io la granatina con la panna gliel’avevo ordinata. Se ne voleva un’altra doveva dire: ne voglio un’altra».
Intervenne Castone Bettanini, il segretario-consigliere-amministratore che da 12 anni gli fa da angelo custode e in tal compito si annulla talmente da usare il "noi" come i pontefici e i re: «Ricordiamo benissimo che ci incontrammo alla Casina Valadier a Roma e le offrimmo la granatina con la panna. Quando lei l’ebbe finita, le chiedemmo se desiderava qualche altra cosa, lei rispose di no, che la granatina con la panna era buona e l’aveva gradita. Questo distorcere la realtà ci ferisce e ci offende. A ogni modo siamo oberati di numerosi impegni e l’incontro è impossibile». «Ma via, signor Bettanini, ma via. Scherzavo e il signor Sordi, che è un raffinato umorista, dovrebbe capirlo. Le porgo le scuse, facciamo la pace». «Accettiamo le scuse ma non possiamo fare la pace. Fare la pace ci indurrebbe a parlare delle nostre fidanzate e noi rifiutiamo questo argomento in quanto desideriamo ardentemente sposarci senza offrirci qualche motivo di beffa. Vero Alberto?». Intervenne Alberto: «Mi avete scocciato. Tutte le volte che mi piace una ragazza, mi fate l’articolo con le fotografie e: Sordi si sposerà entro l’anno, tra dieci giorni, fra 24 ore. Be’? Me le volete far conoscere queste ragazze? Me le volete far frequentare? Se non le frequento, se non le conosco, come faccio a sposarle? E se ne sposo una e poi non mi va bene, dove la metto? Divorzio, me la tengo, la ammazzo? Mi fate sempre fretta, mi fate, mi volete a ogni costo dar moglie. La voglio, va bene, la voglio: scruto e analizzo tutte le ragazze che incontro, ma quando mi oriento verso qualcuna e chiedo a suo padre il permesso di frequentarla, non mi dovete irritare. Ce ne sono a migliaia che vorrebbero sposare un attore, che crede?». «Ha ragione, signor Sordi. Chissà cosa farei, io, per avere le doti che cerca, farla felice».
E ALLORA LUI MI BUTTÒ IN FACCIA quegli occhi rotondi, diffidenti, impauriti: da volpe che teme di cader nella trappola e allo stesso tempo vuol vedere che razza di trappola. «Lei è sposata?». «Ecco, io...». «Divorziata?». «Vede, io...». «Vedova?». Esitai, signori, un lungo momento durante il quale il pericolo di entrare a far parte della schiera delle probabili candidate a un probabile fidanzamento in vista di un probabile matrimonio con Alberto Sordi mi si presentò in tutto il suo spaventevole rito: esame di Castone Bettanini, presentazione agli amici importanti, visita alle sorelle e alla casa, telefonate insistenti, lettere dolci, copertina sui settimanali, litigio, poi, inevitabile, irrimediabile, irrevocabile, l’abbandono per bocca di Bettanini che ne da l’annuncio al babbo e alla mamma: «Abbiamo letto sui giornali la notizia del matrimonio di cui dovremmo essere protagonisti con la vostra figliola e ci duole dirvi che siamo completamente all’oscuro di tale progetto. Noi nutriamo per la vostra figliola sentimenti di cordiale simpatia ma non abbiamo mai preso in considerazione l’eventualità di assumere un ruolo più impegnativo». Non era accaduto press’a poco così con le altre? «Vedova», esclamai. «Chissà perché mi muoiono tutti, ma tra un po’ mi risposo e spero che il prossimo riesca a campare». «Ah!», disse lui con gioioso sollievo. «Ah! Allora facciamo la pace, andiamo a mangiare».
E fu così che diventammo amicissimi e scoprii ciò che cercavo: il gran personaggio nascosto in quest’uomo puntiglioso, sospettoso, difficile, che a 42 anni è il più famoso cittadino d’Italia e sia che cerchi moglie sia che giri un film, la simboleggia con la stessa violenza con cui Gary Cooper o Clark Gable rappresentarono l’America, Jean Gabin o Gerard Philipe la Francia, Laurence Olivier o Alec Guinness l’Inghilterra. Pochi italiani, in questi anni privi di gloria, sono amati nel nostro Paese come Alberto Sordi. I suoi film vanno via come il pane, coloro che non li hanno mai visti costituiscono un numero esiguo e ingiustificato. Le sue avventure amorose interessano quanto quelle di un re, è accertato che i giornali vendono più copie quando annunciano un suo fidanzamento di quando annunciano un divorzio di Liz Taylor. Il suo volto, che è pesante, infingardo, tutt’altro che bello, resta simpatico in uguale misura ai poveri e ai ricchi, ai giovani e ai vecchi, ai maschi e alle femmine, ai comunisti e ai cattolici. La sua ricchezza, che è enorme, si regge su proprietà edilizie e terriere e su un gran conto in banca, e sembra che oltrepassi di gran lunga il miliardo. Eppure è accettata senza proteste sia dagli ignoranti sia dagli intellettuali. Gli intellettuali lo paragonano a Molière e quasi quasi vorrebbero veder la sua testa sui francobolli.
Né ciò accade soltanto perché diverte il tipo che recita sullo schermo: vigliacchetto e arrangione, prepotente con i deboli e ossequioso con i forti, «sempre pronto a correre in soccorso dei vincitori». Accade perché piace lui, il suo cinismo, il suo conformismo, il suo egoismo, la sua ingenuità, la sua semplicità, la sua mancanza di erudizione, il suo buonsenso paesano.
«Vede», disse quando fummo al ristorante, «molti mi danno dell’avaro perché, anziché andare nei night club, preferisco giocare a scopone con i miei amici: ma è colpa mia se mi diverto più a giocare a scopone che ad andare nei night club? Altri mi danno dell’avaro perché non ho l’aereo personale o lo yacht; ma è colpa mia se ad andare sugli aerei piccini ho paura e dello yacht non so che farmene? Molti invece mi dicono egoista perché, pur ripetendo che vorrei esser sposato, sono ancora scapolo. Da scapolo, dicono, ho tutti i vantaggi e nessuna responsabilità: le camicie si allineano ben stirate dentro il cassetto, i pranzi e le cene sono preparati come piacciono a me; e con le sorelle posso fare il mio comodo, come non potrei fare con la moglie. Non è vero: sono un marito nato e questa della famiglia è una spina nel cuore. L’idea di morire senza aver messo al mondo un figliolo, anzi molti figlioli, mi tormenta fino allo spasimo: oltretutto a che serve aver guadagnato tante ricchezze se poi non le lascio a nessuno? D’altronde, è colpa mia se sono prudente e la famiglia la vedo all’antica, non voglio ripetere gli errori di tanta gente che mi vedo dattorno? Io odio il rischio: al casinò sarò stato tre volte in tutta la vita e sempre giocando piccole somme».
E più tardi: «Vede, a me non piace andare a caccia, sebbene sia un gran tiratore. Una volta, a Formia, mi ci portò un contadino e, al momento di sparare, sparai sui bussolotti. Detesto l’idea della morte quanto la vista del sangue. L’idea di tagliarmi un dito mi turba come l’idea di bucarmi il sedere con le iniezioni. La guerra non la conosco: da soldato suonavo i piatti nella banda dell’Ottantunesimo reggimento fanteria. Li suonavo benissimo, con le vibrazioni e tutto, ma per tutto il tempo che son rimasto dentro l’esercito non ho visto un fucile, ho solo suonato quei piatti: dan! Quando la guerra scoppiò, la mia banda musicale fu spedita a Mentone, qui si accorsero che non avevamo nemmeno un fucile e così ci rispedirono a Roma. Fui molto contento. L’eroismo, l’audacia sono per me cose scomode: da seguire tutt’al più alla finestra per coglierne i lati ridicolmente patetici o tragicamente umoristici. Una secolare pigrizia, un istintivo disgusto per le grandi emozioni mi impediscono di prendervi parte».
TUTTO QUESTO, È EVIDENTE, piace agli italiani che durante la guerra non suonavano nemmeno i piatti e tutt’al più facevano l’antifascismo ai caffè: vale a dire la maggioranza. Abbiamo fama di partorire poeti, santi e navigatori, ma la leggenda è eccessiva e Sordi, nel suo onesto cinismo, è l’unico ad ammetterlo: mesi fa, quando la tv inglese lo intervistò nella sua nuova casa, si fece trovare con i calzoncini corti e un aquilone in mano. Poi dichiarò: «Questa lussuosa dimora mi è stata donata dal governo italiano perché in un Paese in cui tutti sono santi, poeti o navigatori io sono l’unico a non essere un santo né un poeta né un navigatore; sono solo un comico che a quest’ora gioca con l’aquilone. L’aquilone mi piace perché non è uno sport pericoloso». E se ne andò cantando: «Bella se mi vuoi beeennee, dammi un bacin d’amooreee...».
L’angoscia, l’alienazione, l’incomunicabilità, insomma le eleganti complicazioni che da qualche anno vanno di moda in Italia, non lo sfiorano neppure per caso. Ha un sistema nervoso eccezionale che gli consente di dormire quando vuole e quanto vuole: per dieci minuti, se ha deciso di dormire dieci minuti, per nove ore se ha deciso di dormirne nove. Non ha mai preso una pillola e la sua salute è di ferro: anche perché mangia poco, beve meno, e non fuma quasi niente. L’alienazione è per lui soltanto una parola ridicola e un po’ misteriosa. L’incomunicabilità non esiste nel suo vocabolario nemmeno quando perde o pianta una donna: «Evidentemente ciò accade perché ci siamo comunicati benissimo che non eravamo fatti l’uno per l’altra. A proposito di comunicabilità, le piace l’America? A me, tanto. Soprattutto New York. Ah, quella folla, quei grattacieli: come ci comunico bene. E poi gli americani sono così imprevedibili. Il luglio scorso, quand’ero a New York per girare certe scene di Mafioso, abitavo in un albergo di fronte al Central Park e sa cosa vedevo tutte le sere nel Central Park? Un omino che, dopo aver dato da mangiare agli scoiattoli, stendeva i giornali sul prato, si adagiava sopra i giornali, si copriva con altri giornali, e lì dormiva fino al mattino. Una sera mi prese la voglia di andare a lasciargli una bottiglia di latte, due o tre stecche di cioccolata, qualche pacchetto di sigarette, e questo biglietto: "Caro americano, tu non mi conosci ma io sì. Sei uno degli americani che liberarono Roma e ci regalavano il latte, le sigarette e la cioccolata. A quel tempo tu eri ricco e io povero. Ora invece tu sei povero e io sono ricco: perciò ti rendo il latte, le sigarette, e la cioccolata. Tuo Alberto Sordi"». «E lo fece?», gli chiesi. «Oh no! Chissà cosa sarebbe successo».
Dice Lattuada: «È un uomo che io non capisco. Quando mi chiedono di lui posso dir solo questo: è disciplinato come un soldato ed è un attore eccezionale perché non appartiene a nessuna delle categorie di attori che noi registi siamo usi a tollerare; lui è creativo, anziché assimilare passivamente ciò che gli chiedi, te lo restituisce interpretato e arricchito. Quanto alla sua personalità non professionale ho capito una cosa: odia il rischio come i funghi, non monterebbe a cavallo di un asinello: è il buonsenso fatto persona. Basta veder la sua casa».
LA CASA DEL BUONSENSO, voglio dire di Alberto Sordi, sorge dinanzi alle Terme di Caracalla, in uno dei punti più eleganti di Roma. È una grande villa color mattone, a tre piani, circondata da un parco pieno di fontane, vialetti, terrazze, verande, dépendances e una piscina a forma di chitarra dove nessuno o quasi nessuno fa il bagno. Apparteneva al segretario di Benito Mussolini, Alessandro Chiavolini, e Sordi la comprò per non si sa quale cifra, la rimodernò spendendovi non meno di 100 milioni. Contiene infatti una ventina di stanze a mantenere le quali non bastano sei persone di servizio, un elettricista e un idraulico. Altri tre servitori tuttofare vi accudiscono a ore, vale a dire dalla mattina al pomeriggio, senza contare le due sorelle di Sordi, Aurelia e Savina che, nubili e cinquantenni, ne curano l’amministrazione. Aurelia e Savina sono del resto, con Alberto, le sole abitanti della villa: Bettanini abita per conto suo con la moglie; e Pino, il fratello maggiore, vive con la famiglia. Ciò induce al sospetto che si tratti davvero di una casa eccezionale, e spiega perché nessun giornalista e nessun fotografo (categoria che Sordi considera come la più diretta collaboratrice del fisco) vi ha mai messo piede. Quando io chiesi di farmici entrare, eravamo alla frutta, Bettanini rispose con un diplomatico no: «Ci dispiace ma non possiamo esaudire questo suo desiderio poiché le nostre sorelle sono tornate appena ieri dal mare e la nostra casa è in disordine». Fu necessario arrivare al secondo caffè, darci addirittura del tu, perché Sordi tornasse sulla decisione dell’angelo custode: visto che alle 11.30 lui prendeva il treno che lo avrebbe portato a Milano, di lì a Salice Terme, visto che io partivo alla medesima ora, tanto valeva recarsi insieme alla stazione.
E visto che ci recavamo insieme alla stazione, tanto valeva muoversi insieme da casa sua. Un quarto alle dieci Bettanini sarebbe passato a prelevarmi in albergo. «Ok?». Ok.
ERO UN POCO ECCITATA, lo ammetto. Pur avendogli detto tante menzogne sul mio stato civile, aver rinunciato perciò a ogni possibilità di diventar la sua sposa, non riuscivo a sottovalutare, ecco, l’importanza di una visita che, bene o male, era la stessa compiuta dalle sue fidanzate quando, se è vero ciò che esse affermano ed egli smentisce, lui le spingeva con dolcezza attraverso le stanze e diceva: «Ecco la casa dove cresceranno i nostri bambini». Avrei visto le suocere, pardon, le cognate? Avrebbero esse creduto alla storia delle mie vedovanze funeste? E come mi avrebbero accolto? Bettanini, al volante, taceva: sempre più perplesso e meno entusiasta della familiarità esplosa tra me e l’uomo sul quale avevo diffuso l’infame storiella della granatina con la panna. Poi si fermò dinanzi a un cancello, mi fece inoltrare lungo un grazioso vialetto, passare attraverso un elegantissimo ingresso in un grande salone da cui partiva una scala di marmo, e quasi intuisse il mio turbamento mi dette da bere. Le sorelle non c’erano; grazie a Dio, erano andate al cinematografo. C’era invece il fratello che è placido, tondo, cinquantenne, e se ne frega di chi va e di chi viene: lui viene ogni tanto «a dare una mano» e questa sera si trovava lì dentro esclusivamente perché veniva a Salice Terme, dove ha certi affari. Io chi ero? Una fidanzata di Alberto? Comunque, ecco Alberto, che scendeva con un sorriso orgoglioso sulla bocca a salvadanaio e diceva: «Io mi chiedo se questa è la casa di un uomo che non paga una granatina con la panna», e ora andava mostrando la collezione di uccelli in porcellana lungo la scala di marmo, gli affreschi settecenteschi trasportati da chissà quale palazzo, le poltrone e i divani acquistati per iperboliche cifre dai più esosi antiquari d’Italia e di Francia, le maioliche rare, le terrecotte da museo, gli argenti di trecent’anni. Era la sua grande rivincita di romano nato in Trastevere, dentro un casamento con i muri scrostati, le inquiline linguacciute sul pianerottolo, i bambini sudici nel cortile, un padre insegnante di basso tuba a chissà quale stipendio mensile e una mamma che lava i piatti dicendo: «Vorrei proprio sapere come se la caverà quel ragazzo da grande, non ha voglia di far nulla».
LA GRANDE RIVINCITA del romano nato in Trastevere comprendeva anche uno studio degno di un presidente della Repubblica, con la biblioteca di acero e cuoio e i libri del defunto critico e giornalista Ermanno Contini: 3mila volumi ricomprati per giusto prezzo dagli eredi e che solo a sfogliarli basterebbero a fare di chi li possiede un uomo coltissimo. Comprendeva una camera da letto con un letto del Seicento e un cassettone con lo stemma dei Grimaldi, un guardaroba ampio come un magazzino della Rinascente: centinaia di giacche tutte uguali e in fila come fantasmi, una toeletta con la poltrona da barbiere, allungabile, e un gran rispetto per la ricchezza. «Quando ero povero, non facevo mai le pernacchie ai ricchi. I ricchi e gli importanti li ho sempre guardati con deferenza e simpatia». Comprendeva una cappella che presto si riempirà con una collezione di arte sacra moderna, «qualcosina di Picasso, qualcosina di Matisse, qualcosina di Chagall», e dove ogni domenica mattina un prete dice la messa privata. «Naturalmente faccio anche la comunione e questa è una gran bella comodità: negli ultimi tempi non potevo entrare in chiesa senza che i fedeli venissero a domandarmi l’autografo e se non era l’autografo era un via vai, un bisbigliare ecco Sordi, guarda Sordi; ciò mi distraeva dalle preghiere».
Comprendeva infine una palestra: con il punching ball per la boxe, la bicicletta fissa per le gambe, il cavallo elettrico per andare al trotto e al galoppo. «Sì, sono molto sportivo, mi aiuta a non ingrassare». E mai sportivo fu tanto coerente al suo personaggio: egli è l’unico italiano, scommetto, che riesce a fare la boxe senza prendere pugni, ad andare in bicicletta senza cascare, a cavallo senza ruzzolare.
D’altra parte, perché non assolverlo? «Io credo», usa dire, «che ogni uomo abbia la sua realtà. Meschina o splendida che sia, egli deve accettarla e costruirci sopra senza rimpianti». E la sua realtà è quella di un piccolo borghese dalla prudenza granitica, l’audacia pressoché inesistente; ecco: allo stesso modo in cui evita di andare alla guerra e a caccia, sebbene sappia sparare ottimamente con il fucile, evita di fare a pugni con un uomo vivo e di cavalcare su un cavallo vivo. Nessuno lo ha mai visto accettare una rissa, un vero litigio: questa è la sua forza e il suo limite. Ma un particolare che nessuno immagina lo riscatta dalla minaccia di tanto squallore: la tristezza della sua solitudine. I suoi veri amici sono pochi: Rodolfo Sonego, lo sceneggiatore che gli scrive gli sketch, Mario Monicelli, Mario Bonnard, Dino De Laurentiis, al quale è legato con ferreo contratto. Dai De Laurentiis va abbastanza spesso: gli piace stare con Silvana Mangano e con i bambini, che lo chiamano zio.
Gli altri li vede a casa sua per qualche serale partita a scopone, o proiezione di film: accanto alla palestra c’è un grande teatro che può servire in ugual modo a darvi recite o a proiettarvi film. Non di rado, però, i suoi amici lamentano problemi famigliari, di lavoro, e allora non c’è altro che lui dentro il grande teatro: così siede solo solo nel buio, a riguardare sullo schermo se stesso, uno dei cento film che custodisce in cabine refrigerate. E la malinconia che questo accada anche domani, e dopodomani, e dopodomani ancora, per mesi, per anni, ha il valore di una redenzione.
«Alberto Sordi», chiesi quando sostammo dentro il teatro, «hai mai pianto? Piangi?». Lui rispose di no, l’ultima volta in cui aveva pianto aveva tre anni; poi, aggiunse che via, bisognava andare alla stazione, era tardi. Il giorno dopo eravamo tutti a Salice Terme, dove gli avrebbero dato, come premio per il migliore attore comico dell’anno, una automobile. L’albergo dove eravamo era circondato da uno splendido parco pieno di aiuole, porticati, gazebo, un decadente romanticismo. Arrivando notò che gli ricordava L’anno scorso a Marienbad (film del 1961 di Alain Resnais, con dialoghi di Alain Robbe-Grillet, ndr) e domandò a chi gli stava dintorno se lo avevano visto. Nessuno lo aveva visto. Però Il vigile lo avevano visto.
Lui sussurrò appena: «Davvero». E invece di vederlo ridere, contento, mi sembrò di vedergli aggrottare la fronte, tirar fuori un rassegnato sospiro. Qualcuno disse che, malgrado i suoi italiani difetti, le sue italiane virtù, egli resta uno dei pochi degno d’essere preso sul serio.
Oriana Fallaci – L’Europeo n. 40, 1962