L’Europeo, n. 3, marzo 2013, 17 aprile 2013
ELOGIO PAZZESCO DELL’ANTIDIVO
[Paolo Villaggio]
PER CHI NON SAPESSE a che cosa alludo, mi affretto a specificare che in questi giorni sono appena usciti il Suo secondo film, non del tutto a caso, I suppose, intitolato Il secondo tragico Fantozzi, e una Sua raccolta di lettere, non a caso, I presume, intitolata Le lettere di Fantozzi. Essendo queste Sue due nuove prove prodotte ed edite dallo stesso editore e produttore di questo foglio, colgo l’occasione per riaffermare una volta di più la mia assoluta indipendenza di giudizio, proclamandole tutt’e due, il film e il libro, con una certa quale impetuosità (quella che comincia a circolare nelle vene solo quando si è superato il primo mezzo secolo e si avanza celermente in quello successivo): una cosa grande!
Forse, per questa mia uscita, avrò a sopportare rimbrotti, censure, decurtazioni pecuniarie, mutilazioni di arti, invii in Siberia, ma non importa. Il mio carattere fiero mi porta a prediligere la verità, costi quel che costi. (Quanto?). La verità über alles. Ja wohl. UNA COSA GRANDE, anzi GRANDISSIMA! Addirittura TROPPO GRANDISSIMA! Ma qui mi fermo, perché non vorrei esagerare nell’assoluta indipendenza di giudizio sino all’arroganza.
La ragione di questa lettera, con cui mi permetto di disturbarLa, non è comunque solo quella di riattestarLe la mia incondizionata ammirazione, ma quella, come appunto Le accennavo poco sopra, di esporLe il mio sincero turbamento a proposito delle conseguenze della Sua opera, che da qui in avanti non specificherò più se spettacolistica o letteraria in senso stretto, perché opera, anzi superopera, più che altro superoperissima in ogni senso.
Le conseguenze sono queste: che il Suo trionfale, e meritatissimo, successo non ottiene solo l’ammirazione delle persone leali quale sono io (che in Lei riconosco spontaneamente uno dei massimi autori dell’Ottocento russo, per un qualsiasi felice disguido approdato nel Novecento italiano, un catastrofista e apocalittico di prima scelta, un Attila del cosiddetto rispetto umano e del risentimento disumano); Le dicevo, torniamo a bomba, che il Suo trionfale e meritatissimo successo non ottiene solo l’ammirazione delle persone leali quale sono io, ma anche, e, dato il tristo Paese in cui viviamo (un Paese che rispetta l’arrangiarsi ma non la creatività, un Paese per cui i princìpi sono nella migliore delle ipotesi un antipasto, un Paese senza onore e tutto una macchia, un Paese, insomma, che per irrisione può essere definito Belpaese ricorrendo alla stolida menzogna di un abate che pretende di riscuotere fiducia non come religioso, ma come formaggio); Le dicevo, torniamo a bomba, che il Suo trionfale e meritatissimo successo non ottiene solo l’ammirazione delle persone leali quali sono io ma anche, e, dato il tristo Paese in cui viviamo, soprattutto l’invidia e l’imitazione delle persone sleali.
Non saprei, infatti, spiegarmi altrimenti perché il nostro mondo italiano stia diventando sempre più un paese, insomma un villaggio. Un VILLAGGIO, intendevo dire, addirittura un TROPPO SUPERVILLAGGISSIMO. Pensi, nel momento stesso in cui Lei dagli schermi dei principali cinema di prima visione, mai abbastanza degni della Sua presenza, metteva in evidenza la miseria della categoria dei cinefili, incapaci di replicare sensatamente al Suo splendido, icastico e consistente giudizio «La corazzata Potëmkin è una cagata pazzesca», gli aderenti a un gruppo denominato Sncci si radunavano a convegno in Roma per discutere sull’opportunità di accogliere nelle loro file anche non iscritti occupantisi tuttavia dello stesso fenomeno in diversa sede.
Mi corre il dovere di informare (non Lei che sa tutto e può tutto, ma qualche lettore distratto) che il Sncci è il Sindacato nazionale critici cinematografici italiani e che, quindi, il fenomeno è il cinema, e i non iscritti occupantisi tuttavia dello stesso sono saggisti di riviste, organizzatori di cineclub, operatori del settore, quali tarme, larve di camole, pulci da poltrone in velluto, pulci, tarli, termiti da sedili in legno, eccetera. Mi dica sinceramente se non sono Suoi personaggi questi che si radunano per un giorno e mezzo, in una cantina, mentre il tempo è bello, e prendono la parola in almeno 23 (Guido Aristarco comunque ha fatto sei interventi), per discutere se si possano ammettere sì o no nel sindacato queste forze nuove del cinema, se sia il caso di assumerle solo come soci aderenti, candidati, corrispondenti (sempre paganti, ma non effettivi), e così via.
CERTO, SONO STATE dette molte cose belle. Lino Micciche ha dichiarato, per esempio, che lui non ha nulla da spartire con il 50 per cento dei soci (e con l’altro 50 per cento che cosa cavolo spartirà?). Gianni Toti ha domandato se il sindacato abbia intenzione, in prospettiva futura, di continuare ad agire nelle misure dell’articolistica o rifondarsi culturalmente in dialettica con la saggistica (lui deve proprio essere già rifuso). E don Claudio Sorgi ha portato il conforto illuminante della fede, asserendo che il critico scrivente non può non avere un contatto militante con l’organizzazione cinematografica di base (tre pater, ave e gloria per lui, Dio mio come stiamo cadendo in alto!). I personaggi sono proprio Suoi, ma, ci scommetto, nessuno certo Le pagherà i diritti. E queste persone a cui mi riferisco cercano addirittura di superarLa.
Le conclusioni del convegno sono state a ogni modo affettuosamente esposte dal presidente del Sncci Giovanni "Jaws" Grazzini che ha detto che le forze nuove, non essendo iscritte all’Ordine dei giornalisti, non possono venire iscritte dal Sncgi che è un sindacato di giornalisti iscritti all’Ordine dei giornalisti, ma che, se verrà soppresso l’Ordine dei giornalisti, il Sncci ci ripenserà indubbiamente. E che, intanto, era emersa la necessità di favorire l’aggregazione tra critici e operatori in sedi locali.
Qui passo e chiudo, Maestro Sommo, ho voluto semplicemente renderLa edotta di quello che Le incombe. Gli imitatori vanno all’arrembaggio. Stia accorto.
Cerchi, La scongiuro, di non farsi superare. Un saluto particolarmente ammirato. E anche un poco servile.
Quando è giusto è giusto.
Suo, Oreste del Buono
Oreste Del Buono – L’Europeo n. 19, 1976