Francesco Billi (vedi note), 17 aprile 2013
VOTARE UN PRESIDENTE IN QUESTO STATO
Oggi la Boldrini convoca il Parlamento in seduta comune perché giovedì inizia l’elezione del presidente della Repubblica.
Renato D’Emmanuele: «Le elezioni si svolgono alla Camera perché c’è più spazio che al Senato, ma non ci sono ugualmente mille posti a sedere e allora si sta in piedi o fuori e si entra al momento delle votazioni». Presiede la Boldrini perché la Costituzione vuole che Grasso non abbia da fare nel caso dovesse succedere qualcosa a Napolitano. [1]
La Costituzione dedica alla più alta carica dello Stato appena 8 articoli su 138. [2]
Se al completo, l’assemblea sarà formata da 630 deputati, 315 senatori più i senatori a vita, tre delegati per 19 regioni e uno per la Valle d’Aosta. Il totale per questa elezione è di 1007 persone, anche se è possibile che ci siano defezioni (per esempio Andreotti, allettato da mesi, non dovrebbe partecipare). [3]
Giulio Andreotti, 94 anni, l’unico che abbia partecipato alle votazioni di tutti gli 11 presidenti della Repubblica italiana.
Dettagli fondamentali: voto segreto, possibilità di eleggere chiunque abbia almeno cinquant’anni, assenza di candidati ufficiali o predeterminati («è una strana elezione senza candidati», sintetizzò una volta Luciano Violante). [4]
Sulla scheda si scrive solo il nome (non la data o il luogo di nascita) per cui, in linea di principio, qualsiasi omonimo del neo eletto – purché ultracinquantenne – può presentarsi alle Camere pretendendo per sé la titolarità della nomina.
Per ogni votazione, tra voto e spoglio, ci vogliono tre-quattro ore. In teoria si potrebbero fare anche quattro votazioni al giorno: in pratica di solito non se ne fanno più di due, perché senza un accordo politico è inutile votare a ripetizione. [5]
«L’aula può distruggere una candidatura, crearla mai» (Ciriaco de Mita).
La cabina elettorale, detta catafalco, è piazzata sotto il banco della presidenza. È la stessa che si usa alla Camera per le votazioni che non possono svolgersi col sistema elettronico. L’urna è detta insalatiera: in vimini, fodera in raso verde, decorazioni d’oro. Schede: nel 2006 si usarono di colore diverso per ogni giorno, per evitare brogli (nel 1992, furono trovate cinque in più). [4]
Nei primi tre scrutini è richiesta la maggioranza di due terzi, in questo caso 673 membri. Dalla quarta votazione basta la maggioranza assoluta, 505 membri.
Facendo la somma di deputati e senatori il centrosinistra arriva a 458, ai quali c’è da aggiungere l’apporto dei delegati regionali, che andranno in buona parte al centrosinistra stesso, ma non in misura sufficiente per arrivare a quota 505. Per cui potrebbe eleggere il nuovo presidente solo con l’apporto dei voti dei montiani o di qualche grillino. [5]
Giorgio Napolitano fu eletto al quarto scrutinio (543 voti) con i soli voti del centrosinistra. Gli unici ad essere nominati al primo colpo: Enrico De Nicola (scelto dalla Costituente con il 79% dei voti), Francesco Cossiga (ebbe 752 voti su 1011, 74,4%), e Carlo Azeglio Ciampi (707 voti su 1010, 70%). Tutti e tre furono frutto di un accordo tra i maggiori partiti precedente la votazione. Per eleggere Giovanni Leone, invece, ci vollero 23 scrutini e 15 giorni, record negativo. L’elezione di Leone, nel 1971, fu avversata dalla sinistra e avvenne alla fine con i voti decisivi del Msi. [3]
Il presidente più votato Sandro Pertini, che nel 1978 ebbe 832 consensi su 1011 (82,3 per cento). Il meno votato, ancora Leone, con 518 voti su 1008 (51,4 per cento). [6]
Tutti gli unidici capi dello Stato sono stati maschi. Così come non c’è mai stato in Italia un presidente del Senato donna né un presidente del Consiglio donna. Delle quattro maggiori cariche istituzionali, solo la presidenza della Camera ha avuto donne: Nilde Iotti, Irene Pivetti e Laura Boldrini. [5]
Il più giovane fu Francesco Cossiga, eletto a 57 anni, il più anziano Sandro Pertini, 82. Finora la media fa 71,3 anni al momento dell’elezione. Ultimamente però si tende a scegliere esponenti più anziani: Scalfaro ne aveva 74, Ciampi 79, Napolitano 81. In carica come noto si resta sette anni, per garantire maggior indipendenza rispetto al Parlamento (che ne dura massimo cinque). Solo in due casi (Antonio Segni, Giovanni Leone) il presidente è rimasto in carica per meno di sette anni. Mai nessuno ha fatto il bis. [4]
Stefano Folli: «Il Partito democratico si avvicina alla data del 18 aprile in condizioni di profondo malessere interno. Secondo certe aspettative, questi avrebbero dovuto essere i giorni del massimo splendore, lo zenit della capacità d’influenzare gli eventi. Prima la presidenza del Consiglio e poi il ruolo di “king maker” nella partita del Quirinale. Niente di più lontano dalla realtà». [7]
Berlusconi ha ammesso a Claudio Tito di Repubblica la disponibilità a votare un rappresentante del Pd, compreso Pier Luigi Bersani, per il Colle. Ma a una condizione: «Poi si deve fare insieme un governo di larghe intese». [8]
I risultati delle “quirinarie” 5 Stelle di sabato scorso invece guardano molto a sinistra. L’ordine è rigorosamente alfabetico: nessuna classifica. Bonino, Caselli, Fo, Gabanelli, Grillo, Imposimato, Prodi, Rodotà, Strada, Zagrebelsky. Oggi, un’ulteriore votazione della rete, sceglierà il nome che sarà indicato in assemblea dal gruppo grillino. [9]
Folli: «Sia il Pd sia il Pdl hanno a disposizione tre votazioni, le prime, per eleggere un presidente della Repubblica in grado di rispecchiare un certo equilibrio, nel solco del settennato di Napolitano: un presidente “di garanzia”, come viene definito. Poi, dalla quarta votazione, con la maggioranza assoluta, comincia un altro capitolo, di cui potrebbero essere protagonisti i Cinque Stelle. E questa è una prospettiva che preoccupa Berlusconi, ma spaventa parecchio i democratici. Perché fare di Grillo l’architetto del Quirinale significa per i vecchi partiti rinunciare in partenza a ogni residuo ruolo di primo piano». [7]
Susanna Turco: «Incredibile a dirsi, ma i papabili di cui si parla sono gli stessi di cui si parlava sette anni fa, prima che il centrosinistra scoprisse la carta Napolitano: Amato, Marini, Bonino, D’Alema. All’epoca c’era persino Monti (candidato da Berlusconi). Anche allora, come oggi, il centrodestra spingeva per la riconferma del capo dello Stato uscente: un Ciampi bis, in quel caso. Altri nomi, fuori dalla politica: Gustavo Zagrebelsky, Stefano Rodotà, Mario Settis. Tra le novità di questo giro: Romano Prodi, Mario Draghi». [5]
Giuliano Amato, di nuovo sulla cresta dell’onda quirinalizia, tipica di chi è candidabile a tutto. L’altra volta, nel 2006, s’è consolato parlando con Massimo D’Alema del piacere di poter almeno disertare le prime della Scala.
Emma Bonino l’ultima volta sbottò: «Amatemi di meno, votatemi di più».
Anna Maria Cancellieri: «L’unica candidatura da presidente, per me, è quella del condominio».
Gustavo Zagrebelsky: «I nomi fatti prima sono ballon d’essai, cascano poi penosamente a terra. Non mi angosciate».
Alessandro Giuli: «Si sa che il nome del prescelto sarà frutto dei magheggi e tradotti nella disciplina di voto; ma in teoria le Camere riunite potrebbero eleggere il nostro edicolante sotto casa. Il che, se in condizioni normali produce ogni sette anni una quota di schede elettorali atipiche (chessò, Francesco Totti presidente), nell’epoca della democrazia internettiana e dell’assemblearismo a Cinque Stelle sta moltiplicando la promozione indifferenziata dalla rete al Quirinale». [9]
Note: [1] Renato D’Emmanuele, Rai Parlamento 13/4; [2] corriere.it 11/4; [3] il Post 10/4; [4] l’Espresso 12/4; [5] Susanna Turco, l’Espresso 12/4; [6] La Stampa 12/4; [7] Stefano Folli, Il Sole 24 Ore 12/4; [8] Claudio Tito, la Repubblica 12/4; l’Espresso.it 13/4; [9] Alessandro Giuli, Il Foglio 12/4.