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 2013  aprile 17 Mercoledì calendario

LA NEUTRALITÀ DELL’EUROPA COSA FARE DELLE BASI AMERICANE

Se ci fosse una guerra tra Cina e Stati Uniti, lei ha affermato, l’Ue dovrebbe essere neutrale. È sicuro che sarebbe possibile essere neutrali per gli Stati Ue nei quali sono presenti basi americane? Se gli Usa chiedessero l’utilizzo delle basi non sarebbe possibile alcuna neutralità per Stati come l’Italia. Come accadde per l’Iraq, fu anche per la necessità Usa di basi come Camp Darby che l’Italia partecipò alla coalizione in Iraq. Un’ipotetica guerra tra Cina e Stati Uniti potrebbe riguardare non solo l’Asia e il Pacifico, ma anche il Mediterraneo per i rapporti della Cina con l’Africa e con alcuni Paesi arabi. In caso di attacco sul suolo americano, poi, saremmo comunque costretti dal trattato Nato a intervenire a fianco degli Usa. Per essere neutrali occorre essere autosufficienti per la difesa e l’Italia non lo è. Non parlo di Ue, perché non esiste una politica estera Ue, né una difesa Ue. Non solo perché gli Stati Ue sono «nazionalisti». A me pare che l’Ue sia nata debole da un’Europa debole. Anche continuare a restare nella Nato dopo la fine della guerra fredda dimostra che l’Ue non è né carne, né pesce, né vuole essere altro oltre un’unione monetaria. Forse si aspetta dall’esterno la soluzione, ma chissà se sia la soluzione più realistica.
Daniela Coli
daniela.coli2@tin.it
Cara Signora, il problema delle basi è al cuore dei nostri rapporti politico-militari con gli Stati Uniti. Quando furono create, dopo la nascita della Nato, rispondevano a un interesse comune: dimostrare all’Unione Sovietica che ogni attacco proveniente da Est si sarebbe scontrato con la reazione solidale degli Alleati. La situazione cominciò a cambiare quando l’America scoprì di avere altri nemici (l’Iran dopo la rivoluzione degli Ayatollah) e sostenne che l’Alleanza dovesse prepararsi a operazioni «fuori area». Dopo la fine della guerra fredda e il collasso dell’Urss, il «fuori area» andò progressivamente allargandosi sino a comprendere, insieme al Golfo Persico, la penisola balcanica e l’Afghanistan.
Quanto più grande diventava l’area dei possibili interventi americani, tanto maggiore era la possibilità che non tutti i Paesi dell’Alleanza fossero egualmente interessati a condividere gli obiettivi militari degli Stati Uniti. Ma pur di conservare l’utile strumento della Nato, Washington sostituì il criterio della solidarietà con quello della disponibilità e teorizzò la «coalition of the willing», la coalizione dei volonterosi. In altre parole divenne possibile chiamarsi fuori, nel caso di un’azione non condivisa, senza uscire dall’Alleanza. Ma questa «concessione» non impedì che l’intero sistema delle basi restasse nelle mani degli Stati Uniti e fosse utilizzato anche per operazioni militari non approvate dal Paese ospitante. Washington, intanto, non smetteva di rafforzare il sistema sia ampliando le basi esistenti (come nel caso di Dal Molin a Vicenza), sia creando nuove basi come quelle antimissilistiche costituite negli ultimi tempi in alcuni Paesi dell’Europa centro-orientale. La Nato è ormai il principale tassello di una politica militare globale su cui i Paesi dell’Ue, anche quando il sistema coinvolge il loro territorio, non hanno la benché minima influenza.
Lei ha ragione quando sostiene che anche nel caso di una guerra sino-americana gli europei, «willing» o no, finirebbero per apparire alleati degli Stati Uniti. E non ha torto quando si dichiara scettica sulla possibilità di una svolta. Capisco il suo pessimismo, ma vorrei che almeno sui termini della questione vi fosse un po’ più di chiarezza.
Sergio Romano