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 2013  aprile 17 Mercoledì calendario

LA SCOMPARSA DEL PENSIERO LIBERALE SOLIDO ARGINE ALLA DERIVA BUTOCRATICA

Se è nei momenti di crisi che si vede di che pasta è fatto il ceto intellettuale, la cosiddetta intellighenzia, del Paese, la risposta è sconfortante: è di pasta frolla. Nel ’22, ad opporsi alla marea montante del fascismo, lasciati colpevolmente soli fino a giocarsi la stessa vita, erano stati, sul fronte politico e intellettuale, il socialista Giacomo Matteotti e i liberali Giovanni Amendola e Piero Gobetti; altri oppositori del fascismo, in entrambi gli schieramenti, erano stati costretti a emigrare per non finire in galera o massacrati dalle squadracce di Mussolini. C’è, oggi, un intellettuale, un solo intellettuale, che, non dico la denunci, ma anche solo parli della deriva burocratico-amministrativa che sta sommergendo, e soffocando, la nostra democrazia? Non c’è. Così, l’Italia procede lungo la strada che porta, passo dopo passo, attraverso la progressiva perdita delle libertà soggettive dei cittadini, alla crisi della sua fragile democrazia, senza che neppure qualcuno se ne renda conto e lo dica.
Dove sono i «maestri del pensiero», laici, democratici, antifascisti, sempre pronti a discettare su «liberalismo e liberismo» — attenzione: sul titolo, solo sul titolo, del celebre dibattito fra Croce e Einaudi, senza aver capito di che si era trattato, non avendolo manco letto — per sparare sul liberismo contrapposto al liberalismo, sulla libertà economica contrapposta a quella politica, come se le due libertà non fossero complementari, mentre la nostra economia sta definitivamente passando da «libera» ad «amministrata» secondo i canoni dei totalitarismi politici del Novecento? Si continua a credere, sulla base di un pregiudizio egualitario non verificabile nella realtà sociale, che il mercato produca un risultato a somma zero — quello che guadagna l’uno perde l’altro — e che spetti alla politica, intervenendo sulle spontanee dinamiche sociali, porvi rimedio. Ha scritto, invece, Sigmund Freud: «La natura, attribuendo ai singoli le più diverse doti fisiche e doni spirituali, ha istituito ingiustizie contro cui non c’è rimedio»; a sua volta, il mercato è una forma di cooperazione sociale volontaria (di divisione del lavoro) che produce vantaggi per entrambi gli attori: «La lettura "sociale" dello scambio evidenzia esclusivamente il vantaggio che ciascuno arreca alla controparte (...) e sul potere pubblico incombe il compito di apprestare le condizioni che rendano possibile la soluzione sociale del problema economico». (Lorenzo Infantino: Il potere; di prossima pubblicazione da Rubbettino). I nostri incolti, e anche un po’ vili, intellettuali si stanno cautamente posizionando, a seconda di chi pensano governerà e/o salirà sul Colle nella prospettiva di goderne i favori. Delle cause del disfacimento dello Stato democratico e di diritto parlano, forse, i media? I giornali sono bische dove si scommette, giorno dopo giorno, su chi farà il governo e/o sarà il futuro presidente della Repubblica, come si fa sui risultati di una partita di calcio e come se i destini del Paese dipendessero, non da ciò che si farà, in concreto, per superare la crisi, ma da chi salirà sul Colle o andrà a Palazzo Chigi. I talk show sono la manifestazione plastica della totale scomparsa di ogni parvenza di pensiero.
Sul fronte della politica politicante, non affatto migliore è la situazione. Nel centrosinistra, Pier Luigi Bersani — già modesto ex apparatcik del Partito comunista e ora segretario del post-comunista Partito democratico — è alla cocciuta, e vana, ricerca di un ubi consistam parlamentare sul quale fondare un nuovo governo; con le sue divisioni e rivalità interne, il Pd offre di sé lo spettacolo aggiornato dell’antico frazionismo, spina sociologica nel fianco, e costante preoccupazione politica già del Pci che aveva rinfoderato le primitive aspirazioni leniniste rivoluzionarie: pas d’ennemi à gauche; e, adesso, anche dell’inadeguatezza del pallido riformismo post-massimalista: pas d’ennemi à droite... Nel centrodestra, il Popolo della libertà, privo di una classe dirigente politicamente forte e culturalmente preparata, continua a contare sulle risorse personali, e taumaturgiche, del Capo, Silvio Berlusconi, ormai logorato, più che dalla frustrante routine del politico di professione nella quale è immerso, dal senso di noia che il ruolo di padre-padrone di un partito privo di identità gli sta palesemente procurando. Il Cavaliere, diluitosi il «pericolo comunista», non si diverte più. E si vede. Nel frattempo, malgrado le recenti elezioni, il governo dei tecnici, che è rimasto in carica per l’ordinaria amministrazione, continua a legiferare, anche in materia fiscale, alla faccia del dettato costituzionale... Uno sfacelo.
C’è una generale, e grave, carenza di «intelligenza delle cose», di capacità di comprensione della situazione. Non è il frutto della carenza della politica e non è neppure vero che alla cosiddetta Casta manchi la «volontà di fare». Ciò che le manca è, soprattutto, la «capacità di fare»; e non tanto per inconsistenza politica, quanto per ignoranza dei dati filosofici del quadro sociologico e politico-istituzionale. La Casta promette, promette di fare e, palesemente, non ce la fa. Ma la sua impotenza non è politica. È culturale. La stessa di cui soffre il Paese.
Piero Ostellino