Marco Zatterin, La Stampa 17/4/2013, 17 aprile 2013
COSA FA L’EUROPA PER L’EFFETTO-SERRA
La Commissione ha presentato ieri una strategia di risposta all’impatto dei cambiamenti climatici che minacciano il Pianeta. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti. Gli scienziati ne discutono la fondatezza. La politica è distratta dalla crisi. Cosa fa l’Unione europea?
La Commissione Ue sostiene che la riduzione delle emissioni che generano l’effetto-serra debba rimanere la priorità numero uno se si vuole vincere la sfida che consiste nel fermare l’aumento della temperatura sotto i 2 gradi nel primo quarto di secolo. Fra i Ventisette, come all’Europarlamento, le idee non sono altrettanto chiare. Ieri a Strasburgo, su proposta del gruppo Ppe, l’assemblea ha smontato il sistema della compravendita delle quote di emissione di CO2. Giusto o sbagliato che sia, è una decisione che costringe a rivedere il modello su cui l’Ue lavora dal 2005 per affrontare l’effetto serra.
Quanto ci costa?
A Bruxelles si ritiene che il mancato adattamento al cambiamento climatico per l’Europa rappresenterà un conto 100 miliardi l’anno nel 2020 e di 250 miliardi dal 2050.
Come è possibile un simile calcolo?
È una proiezione dei danni storici. Tra il 1980 e il 2011, i soldi persi nell’Ue per le alluvioni hanno superato i 90 miliardi. La Commissione, braccio esecutivo e «ufficio legislativo» dell’Ue, ritiene che la spesa sia destinata a salire. Le sole inondazioni rappresentano una spesa da 46 miliardi annui nel 2050. Anche il costo sociale può essere alto, le calamità naturali esagerano i divari. Fra il 1980 e il 2011, le alluvioni hanno provocato 2500 morti e colpito 5,5 milioni di persone. La previsione è che il conto dei decessi salirà di 25 mila unità l’anno dal 2020.
Cosa si può fare?
In una comunicazione presentata ieri, la Commissione Ue invita a prevenire e a rendere le politiche che comportano interventi sull’ambiente più flessibile. Il principio è che un euro speso nella protezione dai rischi di inondazione vale sei euro di minori danni.
Qual è la ricetta di Bruxelles?
Intende incoraggiare gli Stati ad adottare un’unica strategia globale contro il cambiamento climatico. Attualmente sono richiesti dei piani nazionali, con obiettivi disegnati per ridurre le emissioni. Quindici Paesi lo hanno fatto, fra questi non c’è l’Italia. Nei documenti si devono annunciare interventi e investimenti. Avessimo un piano unico per tutti, e coordinato, sarebbe più facile organizzarne il finanziamento.
Sarà una disposizione obbligatoria?
Non per il momento. Però la Commissione ritiene che se nel 2017 le qualità delle strategie nazionali fossero insufficienti, considererà un intervento vincolante dal punto di vista legislativo. Visto il contesto, è un’arma spuntata. L’esecutivo può poco senza il sostegno degli Stati.
Sono immaginabili solo azioni nazionali?
Bruxelles ritiene opportuno impostare l’intera azione dell’Ue in modo che fosse «a prova di clima». Questa è la sua idea. Si tratta di integrare ancor più l’adattamento in politiche particolarmente delicate come agricoltura, pesca e Coesione, facendo sì che l’Europa possa contare su infrastrutture più reattive.
In cosa consiste il mercato dei permessi di inquinamento che ha subito ieri lo stop a Strasburgo?
Tutto gira intorno all’Ets, lo schema per lo scambio delle emissioni, da trattare su un mercato del carbonio creato nel 2005. Esiste un massimale complessivo di emissioni permesse, che è gradualmente ridotto nel lungo termine. Entro il 2020, i flussi nocivi dei settori coperti dal sistema Ets saranno del 21% inferiori a quelli del 2005. Al di sotto questo tetto, le aziende ricevono o acquistano crediti messi all’asta dagli Stati. Un credito corrisponde a una tonnellata di emissioni di Co2. Le aziende possono anche vendere o comprare crediti non utilizzati.
Cosa non ha funzionato in questo sistema?
La crisi ha ridotto i consumi industriali e quindi il prezzo degli Ets è sceso sensibilmente. Molte aziende, anche per colpa della drammatica recessione, hanno trovato più interessante rifornirsi di buoni di inquinamento piuttosto che investire per ridurre le emissioni. La Commissione aveva quindi proposto di congelare la messa all’asta di una parte delle quote del periodo 2013-2020 per un valore di 900 milioni di tonnellate, misura che avrebbe permesso di far aumentare il prezzo delle quote. Il parlamento ha detto: «No». Il che aiuta le imprese, che ne hanno bisogno. Ma richiede una soluzione alternativa per affrontare il drammatico, oltre che costoso, problema dei gas serra e del pianeta che si scalda. Non sarà per nulla facile.