Laura Anello, La Stampa 17/4/2013, 17 aprile 2013
MA DOPO TUTTO QUESTO TEMPO NON SO PIU’ A CHI CREDERE"
E allora? È davvero l’ultimo velo che si alza su Capaci? Tina Montinaro, vedova di Antonio — l’angelo custode di Falcone morto a 20 anni nella strage — trattiene l’irruenza, si ferma, pesa le parole: «Mi fa piacere che i magistrati di Caltanissetta stiano lavorando per scoprire la verità, ma io francamente non ci credo più».
Perché?
«Mi chiedo come sia possibile che un pentito si svegli dopo vent’anni. In tutto questo tempo dov’è stato? Aspettando giustizia, ho visto quanti circhi equestri sono stati messi in piedi. Basta pensare al primo processo su via D’Amelio, con i falsi collaboratori di giustizia, gli innocenti dentro e i colpevoli fuori».
Stavolta gli arresti riguardano coloro che avrebbero procurato l’esplosivo. Tritolo ricavato da bombe inesplose a mare, poi fatto a pezzi e ridotto a polvere dai mafiosi perfino con l’aiuto di uno scolapasta. Che effetto le fa sapere tutto questo?
«Mi sembra di stare su un ottovolante. Negli anni si è parlato di servizi deviati, di 007, di complotti internazionali, sull’esplosivo si sono seguite piste che portavano lontano da Cosa Nostra. Ho sentito fior di esperti, di consulenti, di analisti. Ora viene fuori il racconto di questi mafiosi-artigiani che si procurano il tritolo da un pescatore a Porticello, a due passi da Palermo, e lo fanno a pezzi con le loro mani. Sinceramente non so a chi credere».
Ma al fatto che prima o poi la verità verrà fuori ci crede?
«Io devo crederci. Soltanto con la verità Antonio avrà pace. Soltanto con la verità potremo avere giustizia, io e i miei figli. Gaetano aveva 4 anni quando suo padre è morto, e Giovanni uno. Gaetano per giorni non ha pianto, non ha dormito, non ha mangiato. Finché un giorno mi ha detto: “Papà sta a Roma, l’ha detto a me l’altra sera. Papà è partito”. Per tutte le elementari, d’accordo con i compagni e i genitori, abbiamo dovuto far finta di credere a questa bugia. Quando lo psicologo che lo prese in cura gli chiese di disegnare la sua casa, lui rispose: “Io disegno quello che voglio io”, fece una macchina sottosopra e tre corpi schiantati, nel sangue. Questo vorrei raccontare agli uomini che macinavano il tritolo».
La vedova di Vito Schifani, Rosaria, ha più volte detto che per lei alcuni tasselli non combaciano, che quel giorno forse c’era qualcuno che già sapeva. Anche lei pensa che suo marito sia stato mandato a morire?
«No, mio marito fece cambio apposta con un collega per andare a prendere Falcone all’aeroporto. Era il suo mito. Non avrebbe voluto morire diversamente, Antonio. Gli sarà solo dispiaciuto di non essere riuscito a salvare il suo giudice, “uno che fa sul serio, uno che la mafia la vuole sconfiggere davvero”, diceva».
Adesso che cosa chiede allo Stato?
«Di non avere paura, come non ne aveva Antonio. Nell’unica intervista video che ha lasciato, spiega: “La paura è qualcosa che tutti abbiamo, io ho paura ma non sono un vigliacco. E la paura è lasciare soli i propri figli”. Lui i figli li ha salutati mentre giocavano dentro la nostra Cinquecento. Si affacciò dal tettuccio apribile, loro fecero come per nascondersi di fronte a un gigante, lui faceva ciao ciao e loro rispondevano ridendo. È il loro ultimo ricordo».
E il suo ultimo ricordo qual è?
«Ne ho tanti, belli e brutti, i ricordi di unavita accanto a un uomo che rischiava la vita per uno stipendio di milione e 600 mila lire al mese, 800 euro. Vorrei dire piuttosto qual è il mio auspicio. Vorrei che in questo Paese non fosse normale che le verità restino nascoste per vent’anni e oltre. A questo ormai siamo abituati, non ci scandalizziamo più. Vorrei che la normalità fosse la giustizia».