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 2013  aprile 17 Mercoledì calendario

IL CORAGGIO DELLA SOLITUDINE

Se la sinistra di Bersani e Vendola ha memoria della propria storia migliore, se vuole rinnovarsi ascoltando quel che tanti cittadini desiderano, non ha davanti a sé molte vie ma una, nell’elezione del nuovo capo dello Stato. Non può che scegliere un Presidente che nell’ultimo ventennio abbia avversato l’anomalia berlusconiana, e pensato più di altri l’intreccio fra crisi economica, crisi della democrazia, crisi della legalità, crisi dell’informazione, crisi dell’Europa.
Non può che meditare sul vincitore finale delle Quirinarie di Grillo: Milena Gabanelli è emblema dell’indipendenza giornalistica, della lotta alla corruzione, e di tale indipendenza e lotta la nostra democrazia ha bisogno come dell’aria, per tornare a respirare. Non può che votare uno dei tre nomi politicamente forti emersi dal dibattito nel Movimento 5 Stelle: Stefano Rodotà, o Romano Prodi, o Gustavo Zagrebelsky. Non li ha inventati Grillo questi nomi, non sono suoi: sono figli — soprattutto i primi due — della sinistra. Non è faziosità difenderli.
In passato cosa ha contato che Einaudi, Pertini, e poi Scalfaro, Napolitano, fossero stati “di parte” prima dell’elezione? Solo la persona pesa, non l’astuto reticolo di accordi che l’intronizza. Eletto al primo turno, Cossiga fu pessimo Presidente. Il timore d’apparire partigiano rischia di immobilizzare il Pd, accentuando un attaccamento a larghe e sotterranee intese che l’hanno consumato fino a polverizzarlo. La ricerca di brevi vantaggi, la spartizione di cariche e potere: ecco cosa regala il connubio con una destra numericamente pari a Grillo, ma ben più potente e ricattatoria di lui. I tre contendenti citati sono europeisti, hanno come bussola la Costituzione, sono stimati fuori Italia, e non partecipano al coro conformista che bolla 5 Stelle come antipolitica. Uno di essi, Zagrebelsky, ha detto: «Antipolitica è parola violenta e disonesta». Altri nomi sono possibili, purché l’identikit sia lo stesso.
L’accordo fra sinistra e 5 Stelle sul nome del Presidente è infecondo solo se teniamo il naso schiacciato sull’oggi, anzi sull’ieri (le larghe intese erano solo con la destra). Se guardiamo lontano, se vediamo lo sfaldarsi del Pd non come una sciagura ma come un’opportunità, l’accordo con Cinque Stelle può essere reinvenzione
democratica. Tra le righe è quel che dice Fabrizio Barca, nel programma presentato il 12 aprile in favore di un Pd disfatto e rifatto a nuovo.
I militanti di 5 Stelle preconizzano ad esempio l’immissione nella democrazia rappresentativa
di esperienze sempre più estese di democrazia deliberativa, diretta. Non siamo lontani dallo sperimentalismo democratico che secondo Barca deve innervare il futuro Pd, e abituarlo ad ascoltare quel che la cittadinanza vuol poter discutere e decidere fra un voto e l’altro. I due termini sono diversi ma non la sostanza, che rimanda tra l’altro all’Azione Popolare teorizzata da Salvatore Settis. Ambedue puntano il dito sull’odierna anchilosi dei partiti. Ambedue pensano la crisi come svolta positiva, e nell’impoverimento della nostra economia scorgono una realtà non occultabile ma nemmeno fatale, se altri modelli di sviluppo saranno sperimentati in Italia e in Europa.
L’imminente elezione del Presidente è una di queste occasioni, da cogliere allungando la vista ed evitando di scoraggiarsi in anticipo. L’accordo con Grillo è difficile, dicono: ma non è del tutto escluso che sia possibile, se il Pd considererà come proprio uno dei nomi usciti dalle
Quirinarie, e accetterà all’inizio di restare in minoranza. Alla quarta votazione, quando basterà la maggioranza semplice, un nome non partitico potrebbe passare.
L’occasione è tutto, dunque. Ma ci sono due metodi per affrontarla, analizzati da Barca: il metodo minimalista, o quello sperimentaledeliberativo. Il primo si adagia sullo status quo: ha la forza delle abitudini ai vecchi ordini. Il secondo tenta nuove vie, prova e riprova imparando da conflitti e errori.
Chi adotta il metodo minimalista non crede che lo Stato possa molto, per curare la democrazia malata o attenuare la povertà sociale. Quel che gli importa, è preservare una chiusa élite (di esperti politici, di tecnici) che prenderà decisioni senza curarsi se funzionino, convinta com’è che i piani di austerità daranno ineluttabilmente frutti anche se immiseriscono popoli interi.
Il candidato al Colle preferito da simili élite non deve essere popolare, non deve nemmeno rappresentare un emblema ideale per i cittadini: deve essere abile, e soprattutto omogeneo alle oligarchie che lo faranno re. Meno popolare sarà, più sarà scongiurato il pericolo, temuto dai benpensanti del vecchio ordine, del populismo. A parole, i minimalisti si augurano uno Stato leggero, non invadente. Nei fatti, le oligarchie partitocratiche vivono in osmosi con lo Stato e rendono quest’ultimo più che pervasivo, indifferente alla voce di chi (localmente, nelle Azioni Popolari, nei voti online) reclama cambiamenti.
Tutt’altra l’idea degli sperimentatori, o della democrazia deliberativa: è il metodo sfociato nel voto, da parte degli attivisti di M5S, dei candidati al Colle. L’esperimento è difficile, ma innovativo e molto più onesto di quel che era stato pronosticato. Non tutti i candidati vincenti erano graditi ai vertici del Movimento: tuttavia il verdetto è stato accolto democraticamente e con responsabilità istituzionale.
Molte cose sono state dette, nei giorni scorsi, liquidatrici delle Quirinarie e d’una prassi deliberativa che avrebbe fatto cilecca. È la miopia di chi non intuisce l’ovvia difficoltà dei nuovi inizi. È la miopia di chi rifiuta di istituire subito le Commissioni parlamentari chieste dal M5S. I cittadini chiedono misure rapide contro la crisi, ma i partiti restano sordi: prima devono sapere come lottizzare posti e presidenze, cosa impossibile se non si sa il governo che verrà! La verità, pochi la dicono. Interessante non è il marchingegno più o meno fuorviante del voto in rete a due turni. Interessante è che dovendo indicare ben 10 nomi, un movimento qualificato di fascista, o demagogico, o populista, non sia stato in grado di trovarne neppure uno sfacciatamente demenziale o di estrema destra.
Stupidità fanfaronesche s’incrociano spesso sul web. Ma ancor più funeste dilagano nei non meno virtuali palazzi del potere. Le cerchie partitiche, o tecniche, mostrano una conoscenza del pubblico interesse infinitamente meno vigile. Sono le cerchie contro cui si scaglia Barca, quando denuncia i «partiti di occupazione dello Stato, dove si vende e si compra di tutto: prebende, ruoli, pensioni, appalti, concessioni, ma anche regole, visioni, idee». Berlinguer usò parole quasi eguali, quando ruppe col compromesso storico e denunciò la degenerazione dei partiti, Pci compreso («I partiti hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni, a partire dal governo», disse a Eugenio Scalfari su Repubblica, il 28-7-81).
Perfino sull’articolo 67 della Costituzione, giudicato comunemente intoccabile ma criticato da Grillo, Barca sembra dubbioso: vero è che i costituenti respinsero il «vincolo di mandato» dei parlamentari, ma non all’unanimità. Il comunista Ruggero Grieco difendeva la libera coscienza dei deputati, ma sosteneva che l’esclusione di ogni vincolo «favorisce il sorgere del malcostume politico». Il ventennio berlusconiano non gli ha dato torto.
Non sappiamo ancora se le strade di Barca e di Grillo si incontreranno. Se dall’eventuale incontro la democrazia uscirà più forte. Se il M5S intirizzirà, a forza di rifiutare alleanze. Resta che l’Italia ha bisogno di sperimentatori, non di minimalisti. Che solo i primi sono in grado di guardare in faccia la crisi, e di mutare anche l’Europa. Di ripensare l’austerità come aveva provato Berlinguer nel 1977, quando il capitalismo aveva appena cominciato a
vacillare.