Luca Castaldini, SW 13/4/2013, 13 aprile 2013
UN CIECO SUL TETTO DEL MONDO
Tutti i suoi colleghi alpinisti estremi vivono e sopravvivono gestendo e confrontandosi con bivacchi, seracchi, corde doppie e traversi. Andy a tutto questo aggiunge i raggi di sole, i sospiri dei compagni di cordata e i granellini di sabbia. I primi, quando gli lambiscono il viso, servono per poter localizzare i punti cardinali, mentre i sospiri, a seconda di come vengono emessi, comunicano se e quanto è in tensione chi è appeso là in alto insieme a lui. Poi ci sono i granellini, che, al cospetto di un tratto di trincea tutto da valutare, Andy Holzer getta a semicerchio di fronte a sé “come fanno i contadini con le sementi”. Con questo gesto, tramite il nervo acustico, nel suo centro della visione si forma un’immagine che l’alpinista austriaco definisce “pixelata”, composta dal rumore dei singoli granellini. «In questo modo percepisco chiaramente che il tratto di vuoto che ho di fronte è largo quasi due metri e profondissimo».
Andy Holzer, 46 anni, ex fisioterapista e oggi alpinista con la passione per il surf e lo scialpinismo, riesce a fare tutto questo pur essendo cieco. Non vede dalla nascita a causa della retinite pigmentosa, riscontrata tre anni prima anche alla neonata sorellina Elizabeth. La madre. Maria, scoprì però solo durante la seconda gravidanza che qualsiasi figlio lei avesse dato alla luce non avrebbe evitato la retinite. Gioco d’equilibrio Cieco sulla cima del mondo, il libro di Holzer appena pubblicato in Italia da Keller dopo il successo editoriale ottenuto in Austria, Germania e Svizzera (e presentato come anteprima letteraria del “Trento Film Festival”, al via il 25 aprile), è dunque un viaggio in quota solo in apparenza “a fari spenti” e che invece, pagina dopo pagina, si trasforma in un manifesto alla volontà e alla vita, chiuso da una frase potentissima: «Nessun altro senso genera nella coscienza tanti errori d’interpretazione quanto la vista».
È stato grazie soprattutto ai suoi genitori se Holzer ha prima iniziato a condurre una vita normale e poi scalato non solo metaforicamente tanti dei passaggi più duri che un alpinista possa incontrare, comprese pareti fino al settimo grado di difficoltà e sei delle Seven Summits (gli manca “solo” l’Everest), le cime più alte di tutti i continenti. Quando a 6 anni si trattò di iscriverlo alla scuola elementare, gli Holzer decisero di evitare l’istituto per non vedenti in favore di uno pubblico tradizionale di Lienz. Da casa distava tre chilometri, che Andy copriva tranquillamente in bicicletta accodandosi agli amichetti dopo aver imparato a usarla captando rumori, suoni e brusii fino a costruirsi una mappa mentale identica a quella reale per le viuzze di Amlach, il villaggio dove abitava. Ma le due ruote non rappresentano che la prima, straordinaria sorpresa provocata dalla ferrea volontà di farcela manifestate senza sosta da Andy Holzer. «Potevo prendere la cecità come un problema, invece l’ho trasformata in un’occasione speciale», ha spiegato due anni fa durante una delle tante serate-evento che lo vedono protagonista in giro per l’Europa.
Pascolare le mucche o camminare sul tetto per sistemare le tegole sbrecciate dalla neve, sostenere l’esame da radioamatore o approcciare con le ragazze («i miei amici presenti dovevano tossire rumorosamente se la persona oggetto delle mie avance meritava...»), suonare la chitarra e poi fondare una mini band con cui suonare ai concerti e ai matrimoni: Andy non si è fermato davanti a nulla e spesso chi stava vivendo tutte queste situazioni al suo fianco neanche si era accorto della cecità. Per poter fare sci di fondo sulla pista vicina a casa, per esempio, aveva imparato che «se dopo trecentoventisei spinte con i bastoncini facevo uscire dal binario lo sci destro con l’angolo giusto, e spostavo il peso, mi ritrovavo su un altro anello. Eseguivo la stessa manovra dopo millesettecentoottantanove spinte con il piede sinistro e poco dopo arrivavo al paese vicino, come mi segnalavano i rintocchi del campanile (...) Nacque in me un senso di libertà che non avevo mai provato fino a quel momento». E che sarebbe poi definitivamente deflagrato il 16 agosto 1975, giorno della sua prima scalata. Alex aveva 9 anni, finalmente i suoi avevano deciso di portarlo sullo Spitzkofel. «Appoggiando le mani sulla roccia e sulla corda per iniziare l’ascensione, sentii all’improvviso il mondo intero nelle mie mani; era come se qualcuno mi avesse tolto le manette».
Se si escludono le feroci (e inconsapevoli) cattiverie degli amichetti delle elementari o i “bidoni” ricevuti dai primi sedicenti compagni di spedizione, Holzer ha dichiarato un solo periodo delicato nella sua vita, quando dai 18 ai 28 anni lavorò senza sosta dentro di sé per accettarsi definitivamente. In questo percorso lo favorì l’impiego come fisioterapista, oggi abbandonato per dedicarsi solo all’alpinismo. «Neanche diciottenne mi proposero i classici lavori da non vedente, dal cali center all’impresa di pulizie alla realizzazione dei cestini di vimini, ma per fortuna ho scelto diversamente», ha rivelato in un’intervista.
Un’altra grande fortuna è stata per Holzer rincontro con Sabine, la ragazza sposata nel 1990. Si conobbero grazie al Cb sulle frequenze dei radioamatori e ovviamente lui al primo appuntamento tentò inizialmente di nasconderle il problema agli occhi. Fu l’unico tentativo fallito di una storia d’amore che ha conosciuto finora momenti emblematici (fu lei stessa a regalargli l’attrezzatura per avviarlo allo scialpinismo) e drammatici. Uno in particolare capitò quando si riabbracciarono al termine della tragica ascesa alla parete Nord del Laserz costata la vita al compagno di cordata di Alex, Sepp Voithofer. Di fronte alla supplica del marito («Voglio comunque tornare in montagna»). Sabine rispose: «Sei libero di farlo». Insieme hanno riso molto ricordando l’ascensione di lui allo Spigolo Giallo di Lavaredo. Durante uno spostamento laterale, iniziò ad avvertire e poi arrivò a sfiorare i pantaloni di un altro alpinista. «Sorry», fece Alex. «You are welcome», rispose l’altro, il cui compagno di cordata interruppe entrambi così: «My friend is blind». Cieco pure lui! Scrive Holzer: «Ecco qui un altro matto che sta salendo a tentoni, al buio». Neanche a dirlo, i due diventarono presto amici e nel 2005 coinvolsero una terza persona per una cordata dolomitica: Hugh Herr, americano, amputato bilaterale.
La bici, la scuola, le ragazze, le pareti difficilissime e la morte vista, sì, VISTA in faccia. Per queste ragioni, in tutto il suo libro, Holzer sembra volerci dire soprattutto una cosa: la vita non aspetta, è ora di aprire gli occhi.