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 2013  marzo 13 Mercoledì calendario

HO ANCORA QUALCOSA DA DIRE IN F.1

L’aspetto è cambiato parecchio, ora è completamente calvo. La personalità no. Jacques Villeneuve ha ancora le idee chiare e le esprime con sicurezza. Lo scorso fine settimana ha iniziato la sua nuova avventura come commentatore tv per la F.1 con Sky. Ed è un personaggio con cui si parla sempre volentieri.
Per cominciare, ci fa un riassunto della sua vita privata?
«A metà gennaio mi è nato il terzo bambino, avuto dalla nuova compagna che è brasiliana. I primi due, anche loro maschi, hanno 6 e 5 anni. Viviamo ad Andorra, in Spagna. Mi sono sempre piaciute le montagne, quando correvo in F.1 abitavo in Svizzera. Dal Canada siamo venuti in Europa e abbiamo scelto di stare lì proprio per le montagne».
Lei corre ancora, vero?
«Di recente una gara GT a Baku, in Azerbaigian, anche per scoprire che posto è. E poi in Nascar: faccio tre gare l’anno, sui circuiti stradali. Sono le sole possibilità che mi danno: è un po’ come un club privato di golf, se non ne fai parte non ti fanno lavorare. Oppure devi essere una donna (ogni riferimento a Danica Patrick è casuale...; ndr)».
Le piace questo nuovo lavoro in tv?
«Commento il dopo gara e il dopo qualifiche. Non faccio la seconda voce in diretta perché, anche se parlo italiano, intervenire a caldo è difficile. Con il mio vocabolario fatto anche di francese e ora portoghese rischio di creare casino, può essere complicato. Così è molto meglio».
Si è preparato molto?
«No. Non sapevo cosa aspettarmi e dunque era impossibile farlo. E poi mi piace scoprire le cose sul campo».
Lei ha sempre espresso opinioni deciso. In tv deve mediare?
«Non se ne paria neanche. Ma è ciò che vogliono, sanno come sono e nessuno mi ha dato direttive. Però non sono qui solo per criticare».
Che ricordo resta degli anni in F.1?
«Beh, è iniziato tutto velocemente, il Mondiale è arrivato quasi subito. È diventato difficile dopo, perché tutto il lato politico dei GP non mi andava bene».
L’ha danneggiata essere sincero?
«Non direi. Ma quando è iniziata l’avventura con la Bar (su iniziativa del suo manager Pollock nel 1999; ndr) nessuno mi proteggeva: Pollock era a capo della squadra e non voleva tornare a occuparsi di me e basta. Ho lasciato fare e quando ci sono stati problemi mi sono ritrovato da solo. Forse era meglio tacere...».
In F.1 sembrava distaccato nei confronti del passato. È ancora così?
«Il giorno in cui ho provato la Ferrari di papà a Fiorano è stato incredibile, mi sono emozionato. All’inizio in F.1 ero un po’ freddo però era l’unico modo per guardare avanti. In realtà sono sempre stato impressionato da mio padre e felice di essere suo figlio, ma facevo la mia carriera».
Dipende anche dal suo carattere?
«Sono sempre stato timido nei confronti della gente: sono cresciuto subendo un’attenzione che non meritavo perché a 10 anni non avevo ancora fatto niente, ero solo il figlio di Gilles. E anche dopo aver vinto ero felice per me e la gente vicina a me, ma non andavo in giro a vantare le mie imprese, non potrei mai farlo».
Crede di aver raccolto meno come pilota rispetto al suo talento?
«Mah, non lo so. A un certo punto ho preso decisioni che non puntavano a vincere campionati ma a creare e far crescere un team. Anche se l’idea iniziale non era mia sono andato avanti perché era una bella sfida. E alla fine, se vogliamo, quella squadra ha vinto il titolo (con il nome Brawn GP nel 2009; ndr), segno che non era così male. Struttura, budget, non mancava niente. Ma c’era così tanta politica che si è rovinato tutto. Io sono rimasto lì per fedeltà e mi è costato tanto. Ma non ho rimpianti, è la vita».
Il ricordo più bello della carriera?
«Il sorpasso su Schumacher a Jerez che mi ha dato il titolo 1997. Quel Mondiale era il lavoro di tutta la mia vita e alla fine è arrivato. Sapevo che Michael mi sarebbe venuto addosso e ho cercato di sorprenderlo con una staccata lunghissima. Se mi avesse visto in anticipo sarebbe riuscito a eliminarmi. Era un mese che ricordavo ai giornalisti quello che aveva combinato in passato, per mettergli pressione. Una parte di lui diceva “Non posso farlo, non posso farlo”. Alla fine ha reagito male e non è riuscito a buttarmi fuori come voleva».
E il più brutto?
«Sono due. La fine della Bar e quando ho smesso con la Bmw. Ho ricevuto una chiamata in cui mi hanno detto: “Ti sei fatto male e non vieni alla prossima gara”. Io: “No no, sto benissimo”. E loro: “No, non vieni perché stai male”. “Ah ok, va bene, grazie e ciao”. Sono stati scorretti e questo mi ha dato molto fastidio».
Le gare ora sono passione o lavoro?
«Passione. Faccio perfino corse sul ghiaccio e non è che si diventi ricchi... Amo gareggiare: mi bastano un casco e un volante. Sedere in un’auto da corsa per me è tutto. Se ne fai un lavoro meglio ancora. Ma se lo diventa troppo perdi la passione, spesso succede. C’è gente che esce dalla F.1 e senza i super ingaggi di prima smette. E questo è triste».
Qual è il pilota più forte in F.1?
«Alonso. Non molla mai, anche se ha una monoposto debole. In ogni situazione fa pochi errori e si da sempre da fare. È un toro che vede rosso, molto più forte in gara che qualifica. Ora come ora nessuno è al suo livello».
E il più sopravvalutato?
«Forse Vettel. Nel 2012 ha sbagliato molto. Aveva una gran macchina ma ha commesso errori per cui doveva perdere il titolo, È come se non crescesse, è rimasto il ragazzino che era tre anni fa. Quando la situazione si fa dura, sotto pressione, non reagisce bene».