Paolo Mieli, Corriere della Sera 16/04/2013, 16 aprile 2013
I COMPAGNI DIMENTICATI DEL PARTIGIANO PRIMO LEVI – C’è
un’«alba di neve» che è entrata nella storia della letteratura italiana: quella del 13 dicembre 1943. Una «spettrale alba di neve» (così viene definita nella seconda edizione di Se questo è un uomo, pubblicata da Einaudi nel 1958), nel corso della quale Primo Levi fu arrestato in Val d’Aosta assieme a Luciana Nissim, Vanda Maestro e ad alcuni partigiani ai quali si era unito da pochi giorni. Nell’edizione di Se questo è un uomo del ’58 (nella prima, del 1947, queste pagine non comparivano), Levi, a sorpresa, lascia cadere che il suo arresto, da cui sarebbe per lui iniziato il viaggio alla volta di Auschwitz, fu «conforme a giustizia». «Conforme a giustizia»? In che senso? È da un tentativo di dare spiegazione a quelle tre parole che prende l’avvio uno straordinario libro di Sergio Luzzatto che sta per essere dato alle stampe da Mondadori: Partigia. Una storia della Resistenza.
Vediamo come andarono i fatti. Lì tra i partigiani di Col de Joux, raccontava Levi, «mancavano gli uomini capaci, ed eravamo invece sommersi da un diluvio di gente squalificata, in buona fede e in malafede, che arrivava lassù dalla pianura in cerca di una organizzazione inesistente». Così si spiega come mai lui e altri ribelli della prima ora caddero quasi subito in mano ai fascisti. Ma perché definire quella cattura «conforme a giustizia»? «Giustizia», osserva Luzzatto, «non è una parola qualunque, meno che mai nel vocabolario di Primo Levi». E cosa può spiegare poi «una rappresentazione della Resistenza delle origini tanto dissacrante, o comunque tanto dissonante rispetto alla mitologia antifascista sui primi partigiani della montagna»?
Una traccia utile a chiarire il mistero, Luzzatto l’ha trovata in un altro libro di Levi, scritto nel 1975: Il sistema periodico (Einaudi). Qui lo storico resta colpito dal fatto che, sulle 238 pagine del volume, la Resistenza non ne occupi più di quattro. Nel capitolo intitolato «Oro» pochi capoversi sono dedicati alla salita in montagna, alle settimane «d’attesa più che d’azione», alla caduta della banda del Col de Joux, all’arresto dell’autore e di alcuni suoi compagni. E solo due pagine evocano «il trasporto a valle, gli interrogatori subiti nella prigione di Aosta, la decisione del catturato di ammettersi ebreo piuttosto che partigiano, cioè di votarsi alla deportazione verso chissà dove piuttosto che al deferimento al Tribunale militare speciale della Repubblica di Salò». Perché, continua a domandarsi Luzzatto, questa «avarizia narrativa riguardo alla Resistenza»? Ed ecco che in altre righe Luzzatto trova una seconda traccia utile alla sua ricerca. Queste: «Fra noi, in ognuna delle nostre menti pesava un segreto brutto: lo stesso segreto che ci aveva esposti alla cattura, spegnendo in noi, pochi giorni prima, ogni volontà di resistere, anzi di vivere». E ancora: «Eravamo stati costretti dalla nostra coscienza ad eseguire una condanna, e l’avevamo eseguita, ma ne eravamo usciti distrutti, destituiti, desiderosi che tutto finisse e di finire noi stessi; ma desiderosi anche di vederci fra noi, di parlarci, di aiutarci a vicenda ad esorcizzare quella memoria ancora così recente… Adesso eravamo finiti e lo sapevamo: eravamo in trappola, ognuno nella sua trappola, non c’era uscita se non all’in giù». Così il Levi del 1975 indicava in un episodio del suo partigianato l’origine diretta della sua «caduta negli inferi del Lager».
«Faccio lo storico da trent’anni, ma nessuna ricerca mi ha mai interpellato, appassionato, travagliato come la ricerca su questa storia di resistenza», scrive l’autore. Travaglio che ha implicato un’indagine «sino in fondo» sul «segreto brutto» della banda del Col de Joux. Il «segreto brutto» di Primo Levi. Leggendo tra le righe i libri di Levi, Luzzatto si è imbattuto in una precedente «alba di neve» che, scrive, «non è entrata nella storia della nostra letteratura, o che ci è entrata (più esattamente) in una forma criptata, nel 1975, attraverso le dodici righe del Sistema periodico». Sono le prime luci del mattino del 9 dicembre 1943, appena sei giorni prima dell’arresto di Levi e degli altri «partigia» (questo era il nome che si davano tra loro uomini e donne della Resistenza in Piemonte e Val d’Aosta, di qui il titolo del libro) della banda di Amay, capitanata da Guido Bachi e da Aldo Piacenza.
Quel giorno, il diciottenne Fulvio Oppezzo di Cerrina Monferrato (nome di battaglia «Furio») e il diciassettenne Luciano Zabaldano di Torino (nome di battaglia «Mare») vengono fatti uscire da una baita di Frumy e uccisi dai loro compagni con il «metodo sovietico», cioè a freddo, senza annunciar loro la morte imminente. L’imputazione — assai generica per quel che è dato ricostruire — è di essersi comportati male con i valligiani e di aver rubato. «Non c’è un processo istruttorio che li accusi di un reato preciso, non ci sono documenti che rimandino alla condanna, e allora l’accusa che li riguardava poteva essere anche diversa, in ogni caso aveva a che fare con l’indisciplina e con azioni che mettevano a rischio l’incolumità degli altri componenti della banda, intaccando la possibilità di guadagnare fiducia presso gli abitanti del luogo, di cui si aveva un bisogno estremo», ha raccontato recentemente Frediano Sessi in Il lungo viaggio di Primo Levi (Marsilio), dove si parla di quella «storia taciuta» della Resistenza. Si tratta in ogni caso di una «punizione» inflitta ai due giovani che, prosegue Sessi, «le fonti storiche disponibili autorizzano a ritenere smisurata rispetto all’entità delle colpe di cui Oppezzo e Zabaldano potevano essersi macchiati».
Per Levi quello dell’uccisione a freddo di Oppezzo e Zabaldano è un evento traumatico. «Fra le due albe», scrive Luzzatto, «si consuma l’intero destino della banda del Col de Joux, perché l’esecuzione della sentenza lascia Levi e i compagni distrutti, desiderosi che tutto finisca e di finire essi stessi». Spegne in loro, secondo il Levi di oltre trent’anni dopo, «ogni volontà di resistere, anzi di vivere». Nessuno sa se Primo Levi il 9 dicembre 1943 «fosse salito dall’albergo Ristoro verso il Col de Joux, se avesse contribuito a scavare le due fosse»: «Immagino di sì», afferma Luzzatto, «perché risulta che le due donne di Amay, Luciana Nissim e Vanda Maestro, fossero state fatte allontanare dal luogo dell’esecuzione; il che induce a credere che gli uomini fossero presenti… Immagino di sì anche perché il numero dei componenti della banda era talmente ridotto (Levi ne conterà dodici in totale, donne comprese) da suggerire che tutti gli uomini abbiano dovuto spalare la neve abbondante e scavare la terra ghiacciata dove tumulare senza bara i corpi dei due uccisi». E poi c’è una spiegazione che Luzzatto deriva dall’esegesi di una poesia di Levi, «Epigrafe», scritta nel 1952, e inclusa nella raccolta del 1975 Ad ora incerta, in cui lo scrittore torna ad alludere all’episodio con i toni di chi ne ha avuto esperienza diretta.
È questo il «cuore di tenebra» della storia: la banda del Col de Joux — che fino al 9 dicembre non aveva compiuto «alcuna azione resistenziale di rilievo» e che di lì a quattro giorni, il 13, sarebbe stata facilmente sgominata dai rastrellatori di Salò — «poté risolversi a far scorrere il sangue di due compagni come un atto dovuto di giustizia», scrive Luzzatto. «La necessità in cui i partigiani si trovarono durante la Resistenza di sopprimere uomini entro le loro stesse file, per le ragioni più diverse e variamente gravi», prosegue, «ha rappresentato a lungo un tabù della storiografia». Tabù violato solo dalla letteratura, con i personaggi, ad esempio, del Vecchio Blister di Beppe Fenoglio o di Morti male di Saverio Tutino. Ma la nostra storia è ancora più complicata.
Finita la guerra, Oppezzo e Zabaldano furono «risarciti» con la loro trasformazione in «eroi trucidati dai fascisti». Nell’Albo d’oro della Resistenza valdostana, su un totale di 186 caduti durante i venti mesi della guerra civile, solo tre sono i nomi dei partigiani uccisi nel 1943. E due di questi tre sono quelli di Fulvio Oppezzo e Luciano Zabaldano, che la pubblicazione presenta pudicamente come «deceduti». A guerra appena conclusa, aveva provveduto il capo partigiano Guido Bachi a far ricadere in qualche modo sulla spia fascista Edilio Cagni la responsabilità della loro morte. Nel suo «Verbale di denunzia» contro Cagni, Bachi sostiene che era stato il traditore a suggerire di far fuori nel modo «più sbrigativo» i refrattari alla disciplina. L’antifascista Bachi ne parlava come se i brutali sistemi suggeriti dal fascista Cagni «non fossero stati diligentemente applicati, almeno quella volta, dai partigiani del Col de Joux». «Da storico dei partigia», denuncia Luzzatto, «leggo e rileggo la denuncia di Bachi e mi dico che il dopoguerra di una guerra civile è pure questo: un redde rationem in cui si può imputare ai vinti anche quanto commesso dai vincitori».
Quanto ai due partigiani uccisi, la «riparazione» procedette nel dopoguerra per vie separate. Zabaldano già nel maggio del 1946 fu riconosciuto dalla Commissione regionale piemontese per la Resistenza come un «partigiano caduto valorosamente con onore e gloria nella Lotta di Liberazione per l’onore d’Italia, per la Libertà e per una migliore Giustizia sociale nel Mondo» (le maiuscole sono nel documento), senza che si avvertisse l’obbligo di specificare chi l’avesse ucciso. Ma, scrive Luzzatto, «a me che dopo aver tanto studiato gli eventi del Col de Joux guardo oggi la foto del monumento a quei caduti sullo schermo del computer, il silenzio della lapide intorno al segreto brutto non sembra corrispondere — in ultima istanza — a una forma di occultamento, e meno che mai a una bugia… Non va forse considerato anche lui, il diciassettenne che nell’ultima sera della sua vita, all’albergo Ristoro di Amay, aveva manifestato idee comuniste, un martire della Resistenza?». E qui sono particolarmente intense le pagine di Partigia dedicate al racconto di un recente incontro tra l’autore e un nipote di Zabaldano, Davide, il quale spiega perché, pur avendo intuito cosa accadde a Col de Joux in quelle prime ore del 9 dicembre del ’43, non ha voluto riaprire il caso: «Vorrei soltanto capire che cosa è successo e perché», gli dice. Per il resto, niente scandali postumi, è sufficiente il risarcimento del 1946.
Più complicata la storia post mortem di Fulvio Oppezzo, che deve il suo recupero a un prete del suo paese, don Ferrando, e alla madre («una specie di professionista del lutto», scrive Luzzatto, che «insisteva con tutti, batteva a tutte le porte affinché al figlio venisse intitolato un qualche luogo di memoria»). Operazione riuscita. Tant’è che oggi anche a lui sono intitolate — sia pure con un nome sbagliato, «Opezzo» (senza una p) — una piazza e una scuola di Cerrina Monferrato.
Ma torniamo al protagonista di questo racconto. Una storia particolare, quella del ventiquattrenne ebreo Primo Levi, dalla Resistenza ad Auschwitz. Nell’agosto del 1943, Levi era stato in vacanza a Cogne. Poi aveva deciso di prolungare la sua permanenza in montagna, all’albergo Ristoro di Amay assieme alla madre e alla sorella, in attesa che le cose, dopo l’armistizio dell’8 settembre, si chiarissero. Allora non c’era la percezione di quel che sarebbe potuto accadere: «Pare che la situazione ebraica continui a migliorare», scrive in quei giorni sul suo diario Emanuele Artom, sulla base del fatto che il governo Badoglio aveva abrogato il divieto agli israeliti di pubblicare necrologi, di tenere a servizio «domestici ariani», di frequentare le stazioni di villeggiatura.
In quel momento i pericoli corsi dagli ebrei erano qualcosa di «assolutamente evidente, ma anche di amministrativamente impreciso», scrive Luzzatto. Almeno fino al 30 novembre, quando il ministero dell’Interno della Repubblica sociale italiana diramò l’ordine di polizia numero 5, che ne disponeva l’arresto. Certo, già a metà settembre, il suo zio paterno e suo cugino, Mario e Riccardo Levi, erano stati (assieme ad altri loro correligionari) arrestati e uccisi dai tedeschi sulle rive del Lago Maggiore. Ma lì in montagna, fino al 30 novembre, ci si sentiva quasi al sicuro. Anche se le persone del luogo avevano individuato in quelli come Levi «un’insperata opportunità economica, essendo gli ebrei tanto più disposti a pagare per il vitto e l’alloggio in quanto non facevano turismo ma lottavano per la sopravvivenza». Sicché quei valligiani imposero loro quelle che Luzzatto definisce «tariffe di ospitalità indistinguibili dallo strozzinaggio». Poi, dopo l’ordine di polizia numero 5, per gli ebrei «il problema della scelta si restrinse a un’alternativa secca: o nascondersi da qualche parte, o diventare partigiani… e la secchezza dell’aut aut contribuisce a spiegare perché gli italiani di origine israelita infoltirono i ranghi della Resistenza ben al di là della loro proporzione numerica sul totale della popolazione nazionale».
Va dunque chiarito che Primo Levi, pur essendo già schierato da almeno un anno contro il fascismo, «non era salito in montagna per votarsi senza indugio alla macchia e alla guerriglia, poiché sarebbe stato illogico farlo portandosi appresso la sorella minore e la madre cinquantenne; né era salito per rispondere alla chiamata ideale di una resistenza antifascista, poiché una chiamata del genere si era a malapena sentita all’indomani immediato dell’8 settembre, la resistenza degli uni o degli altri non era divenuta da subito una Resistenza con la lettera maiuscola». Ed è, dunque, in conseguenza all’ordine di polizia numero 5 che, ai primi di dicembre, Levi si unì alla banda partigiana. Per un’esperienza durata pochi giorni, quelli che intercorsero prima che fosse preso dai soldati della Rsi e tornasse a essere soltanto un ebreo.
Ma perché, una volta catturato, si dichiarò ebreo? Aldo Piacenza (arrestato con Levi, poi fuggito e tornato a combattere nella Resistenza) —, un uomo che pure, osserva Luzzatto, «durante la campagna di Russia aveva assistito con i suoi occhi a terribili scene di Soluzione finale del problema ebraico» — poteva ancora ritenere che Primo Levi rischiasse conseguenze più gravi da partigiano attivo che da ebreo nascosto, «da ribelle più che da imbelle». Da ebreo «imbelle», in altre parole, pensava di correre rischi minori. Non poteva credere che «l’occupazione tedesca avesse reso l’Italia di Salò un territorio di caccia analogo all’Europa orientale, un luogo come un altro della geografia continentale dello sterminio». Sicché Piacenza «poteva illudersi di far cosa generosa insistendo sulla condizione di israelita dell’amico, e presentandolo ai saloini come totalmente innocuo dal punto di vista politico e militare». E gli uomini stessi della Repubblica sociale «potevano, al limite, accomodarsi nell’ambiguità della situazione… Potevano non farsi troppe domande sul destino degli ebrei arrestati e avviati al campo di concentramento di Fossoli di Carpi». Così il 20 gennaio del 1944, Primo Levi, Luciana Nissim e Vanda Maestro — per volontà anche e soprattutto del prefetto Cesare Augusto Carnazzi — partirono da Aosta alla volta di Fossoli, tappa intermedia sulla via di Auschwitz.
Per gli altri, rimasti in montagna, la guerra continuava. Quello del 1944 fu un inverno di azioni militari. Nell’estate, dopo la liberazione di Firenze in Italia, di Parigi e Marsiglia in Francia, da noi a Nord si continua a combattere. La piega che ha preso la guerra nel mondo infonde «nuova energia agli uomini delle bande», però maschera appena «la debolezza di zone libere, sì, ma isolate»: sono «enclaves antifasciste in una Valle d’Aosta che resta saloina e germanica lungo l’asse principale».
Va detto che «la libertà dei partigiani non coincide necessariamente con quella dei valligiani». Come potrebbero questi ultimi «ritenere libere zone dove i viveri sono prelevati forzosamente, gli animali vengono requisiti, i beni più preziosi (i grassi, il sale, la legna per l’inverno) vengono gestiti dai ribelli nemmeno fossero roba loro»? E come potrebbero guardare con favore a guerriglieri i quali, attaccando i tedeschi e i fascisti, ne provocano le sanguinose rappresaglie?
L’estate del 1944 «segna così un massimo di espansione territoriale del movimento partigiano, ma anche un contrasto sempre più acuto fra il grosso delle popolazioni montanare e quanti un professore ribelle in Valtournenche, Ettore Passerin d’Entrèves, prima ancora della Liberazione definirà (mettendoci lui le virgolette) gli "idealisti", i "pochi eletti"». Passerin d’Entrèves descriveva quella del «partigia», soprattutto nel «tragico autunno» del 1944, come una «tragica figura» alla Don Chisciotte. «Il vile buon senso dei più», scriveva, «tende decisamente a disapprovare la "follia" dei pochi che impegnano la gioventù in disperate avventure». Questo per mesi e mesi di combattimenti.
Finché arriva il 25 aprile del 1945, la Liberazione. Finita la guerra, si è costretti a registrare, scrive Luzzatto, «il sovrappiù di rabbia, di odio, di brutalità documentato dalle cronache di quella primavera italiana, il dantesco contrappasso che venne inflitto dagli antifascisti a tanti fascisti». Queste le parole che usa Luzzatto: «contrappasso inflitto dagli antifascisti a tanti fascisti». Nell’Italia della Liberazione, prosegue, «la vendetta era tanto assaporata quanto per un quarto di secolo era stata sospirata la giustizia». E a essere brutalmente passati per le armi non furono solo coloro che avevano aderito alla Repubblica di Salò. La liberazione di Casale, ricorda Luzzatto, costò cara, per esempio, a Mario Acquaviva, «un antifascista di lungo corso — da comunista si era fatto anni di galera sotto il regime di Mussolini — che pagò con la vita la sua dissidenza dal partito di Togliatti, e il suo ruolo di dirigente in una piccola compagine trockijsta, il Partito comunista internazionalista». L’11 luglio del 1945, Acquaviva fu raggiunto per strada, vicino alla stazione ferroviaria di Casale, da due killer a volto scoperto che gli spararono al torace e all’addome. Gli assassini non vennero mai identificati, ma, scrive Luzzatto, «si ha ragione di ritenerli sicari operanti per conto del Pci astigiano».
Siamo dunque a Casale Monferrato, che è un po’ la retrovia di questa storia. Da Casale a fine ottobre del 1943 si erano mossi i fratelli Francesco e Italo Rossi, che, assieme a Guido ed Emilio Bachi, avrebbero acceso la miccia della Resistenza nell’intera regione. Da Casale il comandante della piazzaforte germanica, Wilhelm Meyer, aveva ordinato l’8 ottobre del 1944 l’eccidio di Villadeati, in Valcerrina. A Casale, a metà gennaio del 1945, sarebbe stata sgominata e trucidata dai nazisti la banda partigiana di Antonio Olearo (nome di battaglia, «Tom»). A Casale nel settembre del 1947 un gruppo di ex partigiani avrebbe occupato la città per protesta contro la mancata condanna a morte degli uccisori di «Tom». «Indomiti o ingenui, risoluti o patetici, i casalesi provarono a fare come se la Resistenza non fosse ancora finita», scrive Luzzatto recuperando le vivide descrizioni dei fatti del ’47 di Giovanni Giovannini sulla «Stampa». E da Casale viene quel Giampaolo Pansa (che ha raccontato come da bambino vide l’ingresso in città del capo partigiano Pompeo Colajanni, «aspetto fiero e splendidi baffi», talché lo scambiò per uno dei moschettieri, Porthos) con le cui tesi Sergio Luzzatto si misura in modo sorprendentemente aperto. Sorprendentemente perché Luzzatto, che ha sempre duramente contrastato l’autore del Sangue dei vinti, tratta adesso Pansa con grande rispetto e considerazione.
A ridosso della Liberazione, scrive Luzzatto, tutto finì, secondo la «vulgata revisionista», in «un calderone di vendette individuali e collettive, punizioni infamanti, esecuzioni sommarie, stragi nascoste dove nulla si inventa (almeno sotto la penna di Pansa, che ha rispetto per la storia), ma dove tutto si somiglia, senza considerare la specificità dei contesti che resero ciascun episodio della primavera 1945 diverso da ogni altro». Laddove è evidente che si opera una distinzione tra la «vulgata» e gli scritti di Pansa, ai quali va un riconoscimento che più esplicito non si potrebbe. Dunque, scrive uno studioso animato in partenza da devozione alla «vulgata resistenziale», negli scritti di Pansa «nulla si inventa» e, soprattutto, c’è «rispetto per la storia». Una mano tesa. Un modo di (provare a) superare gli schieramenti che da oltre dieci anni si sono creati sui modi di raccontare quel che accadde dopo il 25 aprile.
È lo stesso Luzzatto a riferire di essersi a lungo interrogato sul «fenomeno Pansa» come «sintomo di una crisi dell’antifascismo». Sintomo di cui ha rinvenuto traccia «insegnando all’università, trovandomi di fronte studenti sempre più equidistanti, estranei ai valori dell’antifascismo quasi altrettanto che ai disvalori del fascismo». È stato il «fenomeno Pansa» a determinare in lui «l’intenzione di misurarmi — da figlio e da padre, da cittadino e da insegnante — con questo snodo della moderna storia d’Italia, con il dramma della nostra guerra civile». E lo ha fatto andando, proprio, a scavare in quelle pieghe della storia che negli ultimi venti anni hanno attirato l’attenzione di Giampaolo Pansa.
Interessanti, in questo quadro, sono le pagine dedicate ai processi del dopoguerra contro l’ex prefetto Cesare Augusto Carnazzi, che trovò, disposte a difenderlo, molte persone insospettabili di connivenza con i nazifascisti. Come Guido Usseglio, primario alle Molinette, capo partigiano in val Sangone, che, quando gli avevano arrestato il fratello Sebastiano, era andato da Carnazzi per farlo liberare (ciò che aveva ottenuto), trovandolo «una figura aperta, leale, buona», e avendo la sensazione di potersi «fidare di lui». Ancor più colpito è l’autore di Partigia dall’aver rinvenuto in archivio, «dopo aver maturato una mia idea di Carnazzi come funzionario antisemita se non come antisemita militante», una lettera del 7 agosto 1945 di sette componenti della famiglia ebraica Gerber, che attestavano «con cuore commosso» la loro «perenne gratitudine» a Carnazzi per aver ottenuto la revoca della condanna a morte di uno dei figli, il ventiduenne Ladislao, atto che definivano «la sua opera buona e generosa con la quale ha salvato la vita di un giovane e ciò senza alcun interesse ma solo per grande bontà». «Il partigiano ebreo salvato dal prefetto antisemita: sembra una storia inventata, ma non lo è (o non lo è del tutto)», quasi si sorprende Luzzatto.
Curiose furono anche le condizioni in cui il 4 maggio del 1946 si svolse il processo a Cagni, l’uomo che aveva tradito Primo Levi e lo aveva fatto arrestare. Processo a dir poco frettoloso: i testimoni, riepiloga Luzzatto, «deposero a un ritmo tale che non sempre i cancellieri ebbero il tempo di registrarne correttamente le generalità». Giuseppe Barbesino, che accusava Cagni di averlo torturato, figura negli atti del dibattimento come «Barbesino Vincenzo», sindaco di Gerolamo d’Alba, un paese che non esiste. L’avvocato Camillo Reynaud, che aveva creato la banda di Col de Joux, fu identificato come «Reynaud avv. Vincenzo». Luciana Nissim, figlia di Davide, divenne «Nissi Luciana di Domenico», e le furono attribuiti 33 anni invece dei 26 che aveva. Anche a Primo Levi, all’epoca ventiseienne, l’età fu aumentata a 32 anni e il suo mestiere di chimico fu trasformato in quello di «ingegnere».
«Decisamente la storia aveva fretta, nell’aula del Tribunale di Aosta, fra il mattino e il pomeriggio di quel sabato primaverile», scrive Luzzatto. Fretta di punire in un primo tempo, di dimenticare poi. In mezzo c’era stata, il 22 giugno del 1946, l’amnistia voluta dal guardasigilli, nonché leader del Pci, Palmiro Togliatti. Profondamente diverso è il paesaggio dei dieci anni successivi alla Liberazione. «Un decennio abbondante», scrive Luzzatto, «durante il quale l’aver combattuto per la Resistenza poté sembrare, allo sguardo di un numero imprecisato di italiani, un titolo di demerito piuttosto che di merito… Anche perché la scommessa azzardata dal segretario comunista Togliatti attraverso l’amnistia — competere con la Democrazia cristiana sul terreno di un’integrazione politica degli ex fascisti — si ritorse contro il movimento resistenziale, avendo suggerito una forma di equiparazione giudiziaria tra collaborazionisti di Salò e partigiani delle montagne, cosa che legittimò presso l’opinione pubblica moderata un’immagine della guerra civile quale scontro fra due fazioni analoghe per natura, se non comparabili per sistemi di valori».
Così Cagni viene condannato una prima volta (1946) a morte, una seconda (1947) a trent’anni, una terza (1949) a venti, e poco dopo (1950) può uscire di galera. Luzzatto dimostra che, però, anche quando avrebbe dovuto essere in prigione, nella seconda metà degli anni Quaranta, in realtà Cagni si muoveva da uomo libero, con il nome di «Sognatore italico», per riorganizzare i fascisti, in combutta con i servizi segreti alleati. Dopodiché, «maestro consumato del doppio o del triplo gioco, mostro romanzesco di bravura e di perfidia», Cagni riesce a eclissarsi, pur se qualche sua traccia si rinviene ancora negli anni Settanta. È una storia a un tempo normale ed eccezionale di un «collaborazionista scampato alla giustizia dei fucili e consegnato alla giustizia delle toghe». E da queste messo in condizioni di tornare in libertà, sparire e farsi arruolare, come ai tempi del «Sognatore italico», da nuovi padroni.
Paolo Mieli