Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  aprile 16 Martedì calendario

IL «GRANDE GIOCO» DI BENZINA E GASOLIO. DAGLI USA ALLA CINA E’ ASSALTO ALL’EUROPA

Difficile (anche se non impossibile) che una parte di quei 178 milioni di euro possa finire nell’acquisto di qualche «top player» per l’Inter di Stramaccioni. La curva nord del Meazza ci spera, ma se i «Boys» avessero la pazienza di informarsi sull’andamento del mercato della raffinazione in Europa potrebbero rendersi conto che da tempo la Saras, e le sue concorrenti, navigano in acque tempestose. La Tamoil di Cremona ha chiuso a fine 2011 trasformandosi in un deposito, così come la Raffineria di Roma. Quella siciliana dell’Eni, a Gela, ha sospeso a ritmo alternato le attività lo scorso maggio e si attende la fine di aprile per conoscerne la sorte. Porto Marghera, sempre dell’Eni, sarà riconvertita. L’Api dei Brachetti Peretti ha annunciato lo stop dell’impianto di Falconara dall’inizio dell’anno per i successivi dodici mesi. Se si guardano le stime dell’Unione petrolifera, la lobby dei petrolieri, lo scorso anno il tasso di utilizzo delle raffinerie è stato intorno al 70%. Il che vuol dire che nello spazio compreso tra la capacità di lavorazione dell’intero sistema Italia (circa 100 milioni di tonnellate) e l’uso effettivo che è stato fatto degli impianti risulterebbero di troppo 4-5 raffinerie. Quattro-cinque stabilimenti a rischio sui quindici attivi.
Che cosa sta accadendo dal 2007 a questa parte? Che la crisi economica ha falcidiato i consumi di benzina e di gasolio, che scendono del 10% ogni anno. Che la concorrenza dei Paesi asiatici come Cina e India, e di quelli mediorientali dell’area Opec, si fa sempre più stretta. Loro, si lamentano i produttori europei, sono sussidiati dai governi oppure producono con minori vincoli ambientali (e quindi con meno costi) rispetto agli europei. Spesso tutt’e due le cose insieme. Il prezzo alto del petrolio, poi, non aiuta, e il 2012 è stato l’anno record (in media) per il barile di greggio. In più ci si è messo anche il boom dello shale gas e del tight oil negli Stati Uniti a complicare la situazione. Con idrocarburi «non convenzionali» più economici di quelli tradizionali gli americani stanno rimettendo in marcia raffinerie che inizieranno (e pare lo stiano già facendo) a esportare benzina e gasolio verso l’Europa. Un disastro.
Vecchio Continente nel mirino, quindi: delle 98 raffinerie operative nel 2009 cinque hanno chiuso, 13 hanno cambiato padrone, altre sono in vendita. Dopo la bancarotta a gennaio 2012 del gruppo Petroplus altri 5 impianti sono entrati in crisi. Gruppi cinesi, indiani e russi ne hanno approfittato, con uno shopping a tutta forza. In Italia, ad esempio, la russa Lukoil è ora proprietaria dell’impianto di Priolo, in Sicilia, prima controllato dalla Erg della famiglia Garrone. Una raffineria tecnicamente pregiata, capace di estrarre più prodotti dal barile di greggio, così come quella di Sarroch dei Moratti. L’ingresso dei russi, se si va all’essenziale dell’accordo di ieri, ha un fine ben preciso e tutto sommato semplice: cementare le intese commerciali per la fornitura di greggio a prezzi scontati rispetto ai valori del mercato «spot». Per chi, come la Saras, ha dovuto barcamenarsi e penare tra crisi libica e iraniana, sarebbe un sollievo. I russi, da parte loro, sfrutteranno in pieno i vantaggi fiscali di cui possono godere solo se raffinano il petrolio che possiedono fuori dalla madrepatria. Se la Saras, poi, farà in futuro la fine della Erg e diventerà russa non è dato sapere. Per i «boys» della nord potrebbe anche essere una buona notizia.
Stefano Agnoli