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 2013  aprile 16 Martedì calendario

COSSIGA PIANSE SULLA TOMBA DI MORO. IL PRANZO RISERVATO CON SCALFARO

La tomba di Aldo Moro è l’ultima prima del muro che chiude il cimitero di Torrita Tiberina, 48 chilometri a nord-est di Roma. È intonacata di un grigio stinto e dall’aria intirizzita, e infatti, nonostante il tepore della primavera, Francesco Cossiga è scosso dai brividi quando il 27 aprile 1992 si accosta alla cappella e si fa il segno della croce, raccogliendosi in preghiera. Naturalmente è il freddo dei ricordi, a fargli tremare le mani abbassate lungo i fianchi, come se fosse un soldato sull’attenti... il freddo dei rimorsi per la tragedia del suo «padre politico», a fargli alzare e abbassare il petto in affannosi sospiri, finché gli occhi gli si inondano di lacrime per la commozione.
Una scena alla quale mi è capitato di assistere in solitudine, visto che il «picconatore» aveva voluto che le scorte si fermassero fuori dal piccolo camposanto dove s’era recato in visita sette anni prima, nel pomeriggio dell’ingresso al Quirinale, e dove era tornato adesso portandosi dietro un mazzo di fiori rossi, nell’ultimo pomeriggio da capo dello Stato. Un puro caso che avessi potuto seguire in macchina il corteo presidenziale e che, forse per l’amicizia con il prefetto-consigliere Enzo Mosino, non fossi stato allontanato dai servizi di sicurezza. Dopo una decina di minuti, durante i quali qualsiasi parola sembrava inadeguata (quella era un’esternazione a base di lacrime molto eloquenti), mentre stava già salendo sulla Lancia Thema per rientrare a Palazzo, Cossiga mi salutò con una frase feroce, una delle sue, tra il surreale e il fanciullesco, che azzerava di colpo il pathos dell’omaggio alla tomba di Moro: «Hai visto, Bre’, ti ho fatto assistere a un pezzetto di storia. Sei contento?».
Com’è ovvio non si poteva essere contenti di nulla, semmai spiazzati e imbarazzati per aver violato quel privatissimo momento, che alzava il velo sul dolore di un uomo. Uno psicodramma, perché tale è stata la sua «cerimonia dell’addio» da capo dello Stato, fra staffieri, corazzieri e cronisti in lacrime, l’inno sardo intonato dalla banda militare nel cortile d’onore e una fuga in gran segreto a Dublino, che di fatto parve studiata per dare l’idea di un esilio. Cossiga, si sa, soffriva di ciclotimia ed era da tempo in cura da uno specialista in malattie depressive. Così, era piuttosto frequente vederlo alternare momenti di straordinaria euforia a momenti di cupezza estrema, nei mesi in cui era impegnato in quello che chiamava il gioco del rocking the boat, dove la barca da rovesciare era soprattutto quella della Democrazia cristiana, suo partito d’origine dal quale era stato ripudiato e che da parecchio tempo manovrava per cacciarlo dal Quirinale.
Ed è curioso che, mentre ne aggrediva i vertici, «bombardando il quartier generale come aveva fatto Mao in Cina durante la rivoluzione culturale» — secondo un’efficace immagine di Sergio Romano — il «picconatore» intrattenesse rapporti, se non amicali, quantomeno di rispetto con alcuni esponenti di spicco dello scudo crociato. Perfino con certi suoi avversari di allora, come quell’Oscar Luigi Scalfaro che aveva lanciato un durissimo j’accuse contro di lui in Parlamento e che era stato eletto con il secco ed esplicito mandato di «fare il contrario di Cossiga».
Un episodio che non è mai stato scritto, ma che è rivelatore di questa doppia identità cossighiana (lui stesso diceva di sentirsi diviso in due metà, l’Omino nero, ipercritico e pessimista e distruttore, e l’Omino bianco, sempre impegnato a piacere e divertire e sedurre), risale proprio ai giorni che seguirono la nomina a capo dello Stato di Scalfaro.
In una di quelle sere Cossiga si presentò al portone di via Camillo Serafini, dove abitava Scalfaro, per fare due chiacchiere con il proprio successore. Gli aprì la porta Marianna, che imbastì uno spuntino in corsa e, forse per evitare qualche frizione, deviò su temi religiosi il colloquio tra il padre e l’ospite, provocandolo in particolare sulla teologia dell’anglicano convertito al cattolicesimo John Henry Newman.
Tutti li credevano nemici acerrimi, e invece se ne stavano lì insieme, a discutere senza problemi. Proprio com’era successo un mese prima, quando Scalfaro era stato eletto alla presidenza della Camera e Cossiga non aveva voluto riceverlo sul Colle. Uno sgarbo compensato da un’altra delle sue tante (e segrete) visite notturne.
Marzio Breda