Francesco Pacifico, IL 12/4/2013, 12 aprile 2013
MIA MADRE, PAPA FRANCESCO E IO
Io e mia madre abbiamo una passione per la preghiera. Abbiamo preso strade diverse – lei ha studiato teologia e porta la comunione a casa degli anziani, io faccio questo (per esempio non riesco a trattenermi dall’immaginare mia madre vestita da ragazzo delle consegne che porta impilati sul bauletto del motorino dei cartoni con le ostie) – ma restiamo legati dall’usanza cristiana. Lo premetto nel caso un lettore ci tenesse per primo a precisare che il mio argomento è soggettivo.
La notizia che avevamo un Papa mi è arrivata mentre seguivo un incontro fra Diego De Silva e Philippe Besson all’Istituto Italiano di Cultura di Parigi: si parlava di passione e di sesso. Il messaggio di mia madre diceva: «Fumata bianca». Siccome negli anni la mia curiosità per le posizioni e il tono di Ratzinger è lentamente evaporata, la trepidazione che provavo mi ha sorpreso. Ho aperto il portatile, mi sono connesso e ho guardato la diretta Sky sul sito.
Il Papa è uscito un’ora dopo. La presentazione era finita e io, la direttrice dell’Istituto Marina Valensise, De Silva e la mia fidanzata guardavamo la Rai su un televisore bombato: esce il nunzio, decrepito, lo scambiamo per il Papa, uno di noi grida «Ma è già morto!», mi accorgo di avere un tuffo al cuore all’idea di un Papa decrepito; poi dice il nome del Papa, capiamo che è solo il nunzio (d’altronde era vestito un po’ da comprimario), io non so niente di cardinali e non provo niente sentendo «Bergoglio», ma poi dice che si chiamerà Francesco e mi intenerisco, per i due Francesco che mi ricorda, il santo amante della natura e me. Partono le immagini di repertorio del gesuita perito chimico, dall’aria molto seria. Ci dichiariamo tutti soddisfatti. La cosa non è di secondaria importanza visto che ci troviamo in quel che fu lo studio di Talleyrand nella Francia post rivoluzione, il che dona al momento delle intense vibrazioni diplomatiche.
Poi esce in terrazzo il Papa e lo troviamo grasso, come fosse una furbata, come avesse deciso lui di illuderci, prima, sulla Rai, con le immagini di repertorio. Facciamo battute, «ah però», «ti sei imbarcato», «be’, è proprio grasso».
Il Papa apre bocca: una voce gentile, un personaggio un po’ letterario, il supereroe che parla al microfono, nel rimbombo malato di una piazza adorante, come salutasse i fedeli sul sagrato della chiesetta davanti casa dei miei, che ha il superpotere di ridurre la scala degli eventi. «Fratelli e sorelle… buonasera. Voi sapete che il dovere del conclave era di dare un vescovo a Roma e sembra che i miei fratelli cardinali sono andati a prenderlo alla fine del mondo, ma siamo qui. Vi ringrazio dell’accoglienza. La comunità diocesana di Roma ha il suo vescovo. Grazie». Di lì a poco ci spara, così, un Padre Nostro tipo Where the Streets Have No Name ai concerti degli U2. «Preghiamo per tutto il mondo, perché ci sia una grande fratellanza». Poi si fa benedire dal popolo. E ha un accento pazzesco.
Mi accorgo di avere un groppo in gola e di sentirmi riaccolto nel popolo di quanti pregano prima di dormire e si fanno il segno della croce quando sono tristi o quando sono felici. Io sono di quelli come Daniele De Rossi o Rodrigo Taddei, che quando svirgolano un tiro si fanno il segno della croce.
Poi telefono a mia madre per congratularmi, ma soprattutto per fare il figlio che si congratula e dà così una gioia a sua madre, negli anni provata da alcune scelte del suo primogenito: uso il Papa per un’amnistia generale, un’indulgenza plenaria, credo non sia poi così lontano dal suo uso corretto – la sua prima benedizione se non ricordo male ha rimesso i peccati a tutti quelli che se la sono lasciata impartire (bisogna sapere entrare in certe logiche per avere il massimo dalla Chiesa).
Mia madre è commossa, dice: «Senti, è dolcissimo, e che spirito, come parla bene, che cose profonde che ha detto, che semplicità». Mi rendo conto che lo stile di questo Papa ha risvegliato anche in lei un certo preciso bisogno di Papa che hanno in molti e che si può paragonare, per lodarlo, al Papa buono, GXXIII, e per biasimarlo, stranamente, all’ex Santo Subito oggi un po’ meno adorato, GPII, i cui modi spettacolari al momento irritano ex post i sofisticati e i genuini un po’ come Saviano irrita la sinistra sgamata quando fa i programmi tv o gli articoli di giornale su Messi o Bono Vox.
Sì, il Papa polacco col senno di poi è stato un po’ troppo "commerciale", un po’ troppo Coca-Cola. Mia madre comunque è proprio contenta di Francesco, e anche se al momento delle dimissioni di Ratzinger si era detta preoccupata perché quel gesto, pur eccezionale, lasciava la Chiesa scoperta «in un momento delicato…» (pedofilia, Vatileaks, ma queste cose lei le lascia un po’ non dette perché la fanno soffrire), ora tutto le pare sulla buona strada.
Ne abbiamo parlato un po’ al cellulare, ci siamo salutati contenti e la cosa finisce lì.
Nei giorni seguenti vengo brieffato sulle cose da sapere sul nuovo Papa. A quanto pare, mi hanno detto, protegge i preti pedofili e ha appoggiato la dittatura di Videla in Argentina, negli anni (’76-’83) in cui io venivo concepito, messo al mondo, battezzato, complessato e cresciuto cristianamente.
Che Ratzinger andasse considerato un cattivo lo sapevo sia all’inizio del suo Papato, quando ero un suo fan, sia alla fine, quando non lo ascoltavo più. Andava considerato un cattivo, per esempio, perché scriveva cose inverosimili sugli omosessuali: rimasi molto colpito leggendo per esempio, in un libro edito da Fazi che ne compendiava il pensiero (Introduzione a Ratzinger, di Dag Tessore, 2005), che gli omosessuali potevano turbare la vita di un condominio col proprio esempio fuorviante. Ma ora mi stupisce non potermi godere neanche questo Papa. Beati quelli che erano innocenti quando GXXIII ha detto di portare una carezza ai loro figli; beati i figli che si sono presi la carezza: non si sente quasi mai dire niente contro GXXIII.
Comunque, siccome non posso godermi Francesco, sono andato a informarmi sulla questione. Occupiamoci subito della pedofilia: Bergoglio, dice il Washington Post, come arcivescovo di Buenos Aires non ha mai incontrato le vittime degli atti pedofili di preti e non ha offerto scuse né risarcimenti. Le richieste di incontro da parte delle vittime sono state rifiutate.
Il WP dice pure che Bergoglio «diede istruzione ai vescovi di denunciare immediatamente qualsiasi accusa di abuso alla polizia». Altra accusa. È stato ambiguo col regime di Videla o, come la mette un noto giornalista argentino di sinistra, Horacio Verbitsky, è stato «collaborazionista della dittatura argentina dei generali». L’accusa è seria: durante il regime di Videla i preti collaborazionisti si prestavano a salire sugli aerei con i militari e i desaparecidos da buttare al fiume, per dargli l’estrema unzione. Bergoglio non fu un collaborazionista in questo senso letterale, ma nel libro L’isola del silenzio - Il ruolo della Chiesa nella dittatura argentina (Fandango, 2006) Verbitsky parla del rapimento di due gesuiti, Orlando Yorio e Francisco Jalics, da parte del Governo militare e delle responsabilità di Bergoglio nella vicenda, ossia le ragioni per cui lo considera collaborazionista.
A un mese dal golpe, Bergoglio chiese a Yorio e Jalics di abbandonare la baraccopoli di Bajo Flores a Buenos Aires e, siccome si rifiutarono, li estromise dalla Compagnia. Abbandonati dall’ordine, i due furono rapiti e torturati dal regime per cinque mesi in uno dei luoghi da incubo della Guerra Sporca, la Esma: l’Escuela de Mecánica de la Armada di Buenos Aires.
Yorio, che più avanti morirà di morte naturale, disse una volta che Bergoglio espellendo lui e Jalics li aveva esposti ai militari. Jalics pare invece l’abbia perdonato. Secondo Verbitsky, ne ha perdonato i peccati di omissione, ossia lo considera colpevole.
Altri l’hanno difeso. Aldo Cazzullo, sul Corriere: «Il Provinciale andò di persona da Videla per chiedere la liberazione dei due religiosi». Leonardo Boff, uno dei fondatori della Teologia della liberazione, si è dichiarato soddisfatto dell’elezione, «pegno per una chiesa di semplicità e di ideali ecologici». Il Nobel per la pace Adolfo Pérez Esquivel, premiato per aver denunciato la dittatura, ha detto alla Bbc: «Ci sono stati vescovi complici della dittatura in Argentina, ma non Bergoglio». E a la Repubblica: «So che si è battuto di fronte ai militari per difendere delle persone, so che molte altre ne ha aiutate a fuggire. Non tutte le sue parole sono state ascoltate». Le madri dei desaparecidos di Plaza de Mayo e l’Associazione 24 marzo l’hanno difeso.
Forse il Papa è il solito Papa, o se è per questo il solito prete: salva la gente di nascosto durante una dittatura ma non affronta la questione di petto ideologicamente. In un certo senso razzola bene e predica male.
Mi viene da dire che conosco questa Chiesa. Aneddoto: nella mia parrocchia circolava sempre il custode del nostro palazzo, un vecchietto amato da tutti. Non so perché lo ricordo intento a cambiare l’acqua dell’acquasantiera. Dev’essere un riassunto che fa il mio cervello delle sue mansioni. Faceva qualcosa in chiesa, faceva qualcosa nel palazzo, proprio di fronte alla chiesa. Non aveva moglie. Alcuni uomini si avvicendarono come aiuto-custodi del palazzo, e vissero a casa sua, trattati bene da tutti sia in chiesa sia nel palazzo. Solo molto tempo dopo che era morto di vecchiaia mi venne riferito che era omosessuale e che gli aiutanti erano quindi – oh – i suoi fidanzati.
Ma non devo perdere di vista il punto fondamentale di tutta questa faccenda papale: ora che ho davanti agli occhi le chele pelose dell’insetto Papa messo al microscopio, come farò a considerarlo il mio interfaccia per la preghiera? Mi serve un’interfaccia faccioso, un vecchio che ha recitato milioni di rosari e abbia una rotondità da Charlie Brown per accompagnarmi nelle preghiere della sera, quando vado incontro ai terrori notturni e cerco conforto nel pensiero che la coscienza non è stata sbattuta nella ciotolina dura del mio cranio solo per farmi morire di paura, ma per portarmi un giorno nell’eternità solare.
Questo Papa dunque sarebbe uno che con le dittature ci poteva parlare, che non le condannava, salvo poi praticare tutta la misericordia nel privato dei tentativi di salvare la gente dalle torture effettive. Certo, non una forza di progresso nel senso comunemente inteso a sinistra.
Ma quel che serve non è una guida autorevole della Chiesa. Non siamo più nell’era dell’autorialità. Guardiamo serie tv di cui ignoriamo gli autori. Il volto della Chiesa non dovrebbe essere uno che non si sa se ha salvato tanta gente – ecco che parte «è lo Schindler argentino» – o se invece ha mandato a morire due gesuiti perché frequentavano i marxisti nelle baraccopoli, e forse erano andati a letto con qualche donna perché la Teologia della liberazione li aveva resi euforici. L’interfaccia faccioso dovrebbe essere come una madrina Unicef, politicamente innocente, tutto anelito, da guardare.
Lui, se non avesse incontrato sette anni di dittatura, sarebbe quasi andato bene: perito chimico, latinoamericano, anche professore di letteratura e psicologia, spende poco per lasciare ai poveri, usa i mezzi pubblici. Secondo Verbitsky, certo, sono i significanti del populismo conservatore. E in effetti sono molto attraenti e fanno molto «il Papa capisce la gente».
Non riesco a decidermi. Devo rinunciare a un coinvolgimento infantile per il Papa, che farebbe di me un qualunquista a meno che non decidessi di lanciarmi in un’inchiesta per scoprire quanto Bergoglio sia stato accecato dal timore del marxismo quando cacciò i due gesuiti dalla Compagnia. Oppure devo accettarlo sperando di non star così insultando le vittime dei desaparecidos. Oppure devo dirmi che è tutta propaganda anticlericale; oppure devo cominciare a fare campagna d’opinione perché si facciano papi innocui che vadano bene come interfaccia spirituale?
Papa Giovanni Paolo è venuto a visitare la mia piccola parrocchia di un quartiere ricco romano nel suo neverending tour. Era la seconda metà degli anni Ottanta, io ero chierichetto addetto all’incenso. Fui attentissimo a non sbagliare, ma feci troppo fumo e un assistente del Papa si avvicinò per dirmi di non affumicarlo. Durante quella visita, il Papa lodò il discorso che mia madre aveva fatto nel convento lì vicino, nel corso dell’incontro preparatorio col Pontefice. Giovanni Paolo la definì madre e catechista appassionata. Me l’ha ricordato lei nei giorni senza Papa, quando ci raccontavamo storie da focolare su com’eravamo all’epoca in cui i papi non si dimettevano. Io sono sempre stato un figlio obbediente, perché avevo una madre lodata dal Papa. Giovanni Paolo arrivò in parrocchia come Bob Dylan ad Anzio. L’autorevolezza e il glamour di un marchio globale, le pubblicità di United Colors of Benetton, l’estetica del Live Aid, Giovanni Paolo le portò nella nostra parrocchietta, nei nostri equilibri familiari, e alla fine mi regalò un rosario, consegnato da un suo assistente.
Bei momenti. Ma quando Ratzinger ha dato l’ultima udienza, il 27 febbraio, e mia madre era lì con amici preti a vederlo dal vivo, nel frattempo i miei amici gay di Facebook lo prendevano in giro pubblicando screenshot in cui JR e padre Georg, il suo assistente, abbracciavano estasiati un neonato sulla Papamobile. Il commento: «Il loro sogno». A Roma in questi anni i gay hanno preso un sacco di botte ed è comprensibile che si inneggi al coming out di qualunque prete, specie se bello come padre Georg. Verso la fine della diretta Rai, apprendo da un commentatore online che il Papa d’ora in poi «vestirà in talare bianca semplice, manterrà cioè la veste attuale ma senza la mantellina. Non avrà più le scarpe rosse, le avrà marroni».
Non è bene che si parli delle scarpe del Papa. Vorrei un Papa più generico, più santino.