Davide Illarietti, Lettera43 16/4/2013, 16 aprile 2013
VIAGGIO NELLA DOLCE MORTE
Il tono è amichevole, con un tipico accento svizzero-tedesco, parzialmente oscurato dalle grida di bambini che arrivano in sottofondo. A rispondere al telefono è la dottoressa Erika Preisig. La sua voce è la stessa che ascoltò al telefono Pietro D’Amico, il magistrato di Vibo Valentia deceduto domenica 13 aprile in una clinica elvetica. Nonché l’ultima udita dal giudice prima di ingerire una fiala di pento-barbital-disodio sciolta in un bicchiere d’acqua.
La dottoressa Preisig, insomma, è il medico della morte. Meglio detto, della “morte dolce”: una dei tanti professionisti delle cliniche svizzere specializzate in eutanasia e suicidi assistiti. Nella Confederazione sono cinque: a Basilea, Berna, Ginevra e due a Zurigo. Vere e proprie anticamere dell’aldilà, servizio tutto-compreso, dal pernottamento alla cremazione. In una di queste, nel villaggio di Biel-Benken, poco fuori Basilea, esercita Preisig. Ed è qui che Pietro D’Amico è stato accompagnato nell’estrema scelta.
Per compiere l’ultimo viaggio bisogna disporre di circa 7 mila euro, da versare sul conto della clinica (le coordinate, normalmente, sono fornite sui rispettivi siti internet). A occuparsi di tutto il resto, dall’acquisto dei medicinali alla prenotazione dell’hotel, per chi non abiti in Svizzera, ci pensano le associazioni no-profit che gestiscono le cliniche.
I nomi promettono bene: Exit, Lifecircle-Eternal Spirit (alla quale ha ricorso D’Amico) oppure, la più famosa, Dignitas, con base a Zurigo. Gli slogan sono altrettanto evocativi: «Vivere degnamente, morire degnamente», oppure «Libertà di vivere e morire».
I soldi, tuttavia, non bastano. Per mettere fine alle proprie fatiche terrene bisogna superare una serie di test. Si tratta di colloqui con gli psicologi, e non sono banali: li passano, di norma, solo il 40% dei richiedenti.
Sorpassato l’esame, l’aspirante suicida può fissare un appuntamento. E dopo due giorni trascorsi a stretto contatto con lo staff, si procede con l’operazione.
«La cosa essenziale è che il paziente abbia una malattia irreversibile e clinicamente accertata», ha spiegato Emilio Coveri di Exit Italia, associazione a favore dell’eutanasia a cui anche Pietro D’Amico era iscritto, dal 2007. «Una persona con una depressione irreversibile, così come un malato terminale di cancro, hanno il diritto di porre fine alla propria esistenza in modo dignitoso» continua Coveri, che con la sua associazione, unitamente ai Radicali e all’Unione atei agnostici razionalisti, ha raccolto circa 6 mila firme per introdurre in Italia l’eutanasia e il suicidio assistito. «A D’Amico abbiamo fornito le informazioni necessarie sulle pratiche e le offerte delle associazioni svizzere, e questo nonostante l’avversione e l’ostilità dei familiari», ha concluso.
I sostenitori dell’eutanasia si indignano perché dall’Italia è necessario varcare il confine elvetico per morire senza sofferenze, come già fece, nel novembre 2011, il cofondatore del Manifesto Lucio Magri.
Non c’è solo la Svizzera, beninteso. Il suicidio assistito è legale in Colombia e negli Stati americani dell’Oregon, di Washington e del Montana. E, per stare in Europa, anche in Belgio, Lussemburgo e Olanda. Ma solo le cliniche della Confederazione offrono il servizio anche a cittadini stranieri. La Svizzera, d’altronde, ha un tasso altissimo di suicidi (in media 1.400 all’anno, il 2,2% del totale dei decessi), il più alto al mondo con arma da fuoco. Morire, si può dire con un po’ di cinismo, è una specialità, come gli orologi e il cioccolato.
«La legge svizzera non considera il suicidio come un omicidio. Purché non sia indotto da terze persone, per motivi personali o di soldi», ha spiegato Willy Pedrioli della Miralux Fiduciaria Sagl di Lugano, società specializzata in consulenze a italiani che vogliono compiere il gesto estremo oltre confine.
La loro tariffa è 200 euro all’ora. «Ci sono una serie di passaggi burocratici, amministrativi, giuridici da fare. Non è così immediato. La maggior parte infatti desiste».
Eppure le cliniche svizzere lavorano soprattutto con gli stranieri. Su un totale di 1.138 persone assistite negli anni alla Dignitas di Forch, vicino a Zurigo, 118 venivano dalla Svizzera, 592 dalla Germania, 102 dalla Francia, 19 dall’Italia, 18 addirittura dagli Stati Uniti. E dire che il servizio, per uno svizzero, costa quasi la metà che per uno straniero. «I residenti non devono sostenere costi burocratici, di viaggio e di pernottamento», ha concesso Jean-Emmanuel Strasser, medico di Exit-Suisse romande, associazione di Ginevra che pratica il suicidio assistito solo a cittadini della Confederazione.
Per avere un servizio a domicilio i residenti devono versare una quota annuale di 40 euro destinata alle associazioni che gestiscono le cliniche. In questo caso, il personale medico si limita a fornire i farmaci che condurranno al sonno eterno: un composto chimico con un barbiturico e un potentissimo sonnifero. In 5 minuti, senza dolore, arriva l’arresto cardiaco. «Noi cerchiamo dall’inizio alla fine di dissuadere il paziente. Se non riesce a bere da solo il composto, per legge siamo tenuti a mandarlo via», ha però ammonito il medico.
Nella migliore tradizione svizzera, in ogni caso, le associazionie e le cliniche garantiscono agli iscritti la massima segretezza. Nessuna comunicazione viene fatta nemmeno alle famiglie degli aspiranti suicidi.
Anche la dottoressa Erika Preisig rispetta la prassi, come richiesto da D’Amico: «Gli ho promesso che non avrei parlato con i giornalisti, ma solo con i suoi familiari, una volta conclusa l’operazione». Ma una cosa da dire, il medico, ce l’ha e suona un po’ come un messaggio promozionale: «Dove non ci sono altri mezzi per migliorare le condizioni di vita del paziente, meglio il suicidio assistito, nel modo più tempestivo possibile».