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 2013  marzo 29 Venerdì calendario

DEPECHE MODE

Dave Gahen è felice quando sente di essere parte di un tutto. Gli è successo qualche giorno fa, qua New York, quando è uscito dal cinema con la moglie, mentre stava iniziando a nevicare — proprio come oggi—ed entrambi erano ancora sotto l’effetto del film che avevano appena visto, Django. «In genere è la musica che ha il potere di portarmi in un “posto speciale”, ma a volte capita anche coni film», mi dice. Quello stesso pomeriggio Gahan ha visto anche Zero Dark Thirty, che però lo ha convinto di meno. Il film di Tarantino invece è andato a segno: lo ha stupito, gli ha fatto lo stesso effetto che lui si aspetta debba fare sul pubblico un disco dei Depeche Mode. «Devi volerlo ascoltare dall’inizio alla fine, e deve avere un senso unitario, esattamente come un film. E come Django deve essere oltraggioso, deve scorrere, esplodere, avere un finale degno di un’opera». Per accompagnarti in quel posto speciale, aggiunge Dave, un disco deve eguagliare quella sensazione che lo afferra ogni volta che vede uno show di Nick Cave («E come Johnny Cash, Elvis e tutto il meglio del R&R. È in cima, con i più grandi!»). O che gli ha dato il nuovo disco dei Sigur Rós, che lo ha commosso più di quanto possa dire a parole, facendogli ringraziare il cielo che esista musica simile.
Dave Gahan parla senza interruzione dal momento stesso in cui entra nel ristorante italiano del Greenwhich Village dove ha appuntamento con noi di Rolling Stone. Va avanti così per un po’, tranquillo, seguendo un filo mentale tutto suo. Mi stringe la mano per presentarsi e subito inizia a raccontare di felicità, di spiritualità e di ciò che si aspetta dalla sua band di più di 30 anni. Continua, mentre appende il cappotto nero, elegante, sotto il quale ha una giacca di pelle e altri strati d’indumenti neri. Alle dita porta un grosso anello con un teschio d’argento e un altro con una pietra nera. C’è un teschio anche sul salvaschermo dell’iPhone: un disegno colorato, a metà tra il celtico e l’azteco. Muove le mani davanti al viso come se stesse suonando un pianoforte, e tutta la conversazione viene accompagnata dal sottile tintinnio dei braccialetti che ha al polso. Si siede e dice che questo nuovo dei Depeche Mode è un disco «proprio come si deve». Racconta anche le indecisioni sul titolo: da un autoesplicativo 13 (questo è il loro 13esimo album) a qualcosa che evochi il blues del Delta (da cui poi è venuto fuori effettivamente il titolo Delta Machine, nda). Ora però non vede Fora di iniziare le prove del tour e riunirsi a Martin Gore e ad Andrew “Fletch” Fletcher, il terzo membro fondatore, quello il cui ruolo nella band rimane uno dei più grandi misteri dei Depeche Mode.
Il tour mondiale è una bestia lunga. A maggio Dave compirà 51 anni, e dunque si sta allenando. «Un po’ per vanità, un po’ perché quando faccio esercizio è tutto più pulito e vengono fuori cose migliori», dice. Cardio la mattina, allora, e dopo pranzo un paio d’ore nel suo studio per riscaldare la voce: questa volta non vuole avere i problemi fisici e vocali che ha avuto durante il Tour of the Universe nel 2009/2010. A questo punto si ferma. «Scusa», dice, realmente mortificato, «lo so, devo chiudere il becco. Finisce sempre che parlo io per tutto il tempo!». Come è naturale, lo lascerò parlare il più possibile. L’accordo era di incontrarci per un’ora: Gahan si fermerà quasi due, per poi proseguire a chiacchierare del più e del meno sul marciapiede fuori dal locale. A registratore spento, decido di raccontargli che ci sono voluti quasi 20 anni perché ci trovassimo qui a parlare. Nei primi anni ’90 ci eravamo andati vicini un paio di volte. Vivevo a intermittenza a Londra, stavo mettendo insieme un libro-intervista su Nick Cave e, dunque, frequentavo spesso gli uffici della loro casa discografica, la Mute. Erano gli anni subito dopo Violator: «Quando le cose sono schizzate in cima al cielo», ricorda, «e non ce lo aspettavamo». In quel periodo, però, Dave non si faceva vedere molto in giro, tanto che sul suo conto iniziarono a girare voci preoccupanti: non sta più a Londra, è perso in una brutta tossicodipendenza, ha tentato un paio di volte il suicidio. Oggi lui commenta senza battere ciglio: «Avevo messo in conto di gettare la spugna. Vivevo con l’idea fissa che sarei uscito presto di scena». Non a caso, all’epoca, erano in molti a dubitare circa la sopravvivenza dei Depeche Mode. La maggior parte davano Dave per spacciato, e io stesso non avrei mai immaginato che un giorno me lo sarei trovato davanti tanto loquace, persino divertente, oltre che un discreto imitatore...
Ricordo di averti sentito dire che un disco deve avere un “tema”, oltre che un inizio e una fine. Questo disco si apre con un pezzo che si chiama Welcome to My World, e si chiude con Goodbye. Avete sempre parlato di ricerca personale, adesso sembra che abbiate raggiunto alcuni punti fermi. Ogni volta diventa sempre più personale, e abbiamo sempre più la consapevolezza di aver trovato qualcosa in cui crediamo fermamente. Sia io che Martin siamo sicuri che c’è qualcosa d’altro, e di più, che riusciamo a provare attraverso la musica. Sono lì sul palco che canto e ballo, e a un tratto succede qualcosa... Non so spiegarlo, va al di là dell’esperienza individuale: ha a che fare con il pubblico nel suo insieme. E per questo che ci imponiamo di fare dischi che non siano semplicemente “ok”, ma qualcosa di più. Martin ti direbbe che sono io, in realtà, a essere troppo severo con me stesso... Probabilmente ha ragione: dovrei rilassarmi di più, avere meno dubbi sulle mie scelte, lasciare che le cose mi scorrano attraverso. Purtroppo ci riesco solo a volte: Martin invece sa come ottenere quello stato, sa che arriva per una sorta di... intervento divino.
Stai confermando che siete entrati esplicitamente nel territorio della spiritualità. Come si fa a parlare di queste cose e non suonare New Age, o come se foste appena usciti da una seduta dei Narcotici Anonimi? Lo so, è facile sembrare ridicoli. Io cerco sempre di essere sincero, a volte persino troppo, e so che qualche volta può apparire sdolcinato o banale. Ma questo è il gioco che abbiamo scelto di giocare, si chiama rock&roll, ed è soprattutto entertainment. Arriviamo sul palco e quello che vogliamo è divertirti, coinvolgerti, farti sentire parte di qualcosa. E una sensazione molto elementare, ma al tempo stesso ogni tanto estremamente potente. Se la combinazione di suono, parole ed energia riesce a raggiungerti, succede qualcosa a un livello assai profondo. Questo è ciò che vedo accadere sotto ai miei occhi da ormai tanti anni. Posso dirti quello che penso?
Assolutamente! Questo è il mio lavoro, questo è ciò in cui credo: se non ci credo, piuttosto evito di cantare. Se non sento qualcosa che mi vibra dentro, non lo faccio. Punto. La rockstar è per definizione una figura ridicola: la differenza rispetto al passato per me, ora che ho alle spalle tanti anni di lavoro è che adesso lo so. Salgo sul palco e sono consapevole del fatto che sto giocando con me stesso: divento una caricatura, un cartone animato. Ma al tempo stesso prendo molto sul serio quel personaggio che porto in scena. Quando sono in tour, in un certo senso mi trasformo in quel personaggio. E a volte “lui” diventa pesante, così devo starci attento: in passato ci sono stati momenti in cui “lui” mi ha messo in guai davvero brutti... La giornata ruota tutta attorno a quelle due ore in cui sono sul palco, e a differenza del passato devo ricordarmi di trovare dei momenti per fare delle cose normali. Devo stare molto attento.
Ci sono un paio di canzoni nuove che sembrano parlare proprio di quel luogo dove riesci a entrare e della tua trasformazione in “Padre, Figlio, Spirito Santo e prete”. Hai fatto progressi dai tempi di Personal Jesus... Credo che quei versi siano pieni di humour. Li ha scritti Martin, ma riesco a vederne l’angolazione. Parlano di un tizio che sta lì, in piedi di fronte ai leoni, e che non può che portare avanti il suo show. “Farò qualsiasi cosa per voi / Questa notte sarò vostro”. Il problema casomai è dopo, nel ritrovare se stessi. E esattamente così che vanno le cose in tour: quei 18 mesi lontano dalla vita reale rischiano di isolarti troppo, di farti entrare troppo in quel personaggio. Ok, Martin ha ragione: sono troppo duro, pretendo troppo da me stesso: ma non conosco un altro modo di fare le cose. Adesso riesco a mantenere il controllo, ma tra il 1989 e il 1996 ero completamente perso in quel personaggio. E allora droghe, alcol... Ho dei ricordi molto confusi di quei 10 anni, sia sul palco che fuori.
Quella fase è finita nel 1997. È un caso che abbia coinciso con il tuo trasferimento a New York e con l’uscita di Ultra, salutato da molti come il vostro “grande ritorno”? New York mi ha aiutato, perché a New York, come sanno tutti, devi lanciarti nella vita! Prima abitavo a Los Angeles. Lì, il massimo che puoi fare è restare a galla. Ti lasci galleggiare, fino al precipizio. Ancora oggi, se vado a LA., devo stare molto attento a non farmi sedurre da quel suo lato spaventoso e oscuro.
È in omaggio a quel lato oscuro se, da Ultra in avanti, hai iniziato a utilizzare un’immagine di performer quasi “equivoca”, se mi passi il termine... Iniziare a usare lo humour è parte del percorso che mi ha portato fuori da quei io anni di confusione. Questo non significa ridicolizzare: io rispetto il lato oscuro, lo accolgo in me, ma poi lo lascio andare. In quegli anni avevo perso la capacità di vedere la luce, la mia vita era solo buio. Ora invece so come integrare la mia parte oscura, per poi lasciarla uscire. A volte la devo aiutare, e per farlo uso la musica. E impossibile essere quella persona tutto il tempo. E impossibile. Credimi, ci ho provato.
Negli ultimi anni, a volte è sembrato che voleste deliberatamente eliminare il “personaggio”. Come nel video di Hole to Feed, dove non apparivate proprio, per lo scontento dei fan. Anni fa c’è stato un momento in cui non c’era giorno in cui non venisse annunciata la nascita di una nuova band destinata a un futuro radioso... Tipo i Coldplay, hai presente? E stato il primo esempio di come la diffusione dell’informazione ha contagiato anche il mondo dello spettacolo: non ci sono più confini, ma non c’è neanche più differenziazione. Tutti sono ugualmente parte della celebrity culture. Ci eravamo un po’ stancati di quell’aspetto, così abbiamo deciso di provare a non utilizzare la nostra immagine, per una volta. Quando dico che i Depeche Mode sono una strana creatura, è anche perché non abbiamo mai fatto nulla per ingraziarci deliberatamente i favori del pubblico o la stima di una casa discografica. Forse è per quello che siamo ancora qui.
A parte i temi, questo disco è anche più lento, meno pop e meno dance dei precedenti. Come la metterete col pubblico che verrà a vedervi negli stadi? Mi piace muovermi, ballare, ed è importante che nello show ci sia quell’elemento. Il disco precedente, Sound of the Universe, era esistenziale, ma parlava soprattutto di forze esterne. Questo è tutto rivolto all’interiorità: come ci fosse stata un’esplosione, che poi è stata riassorbita. In un certo senso, lo trovo più simile a Songs of Faith and Devotion e Violator. Quei lavori erano molto diretti, indirizzati alla ricerca di qualcosa. Delta Machine è un disco figlio della consapevolezza, non solo delle domande. Le tematiche sono le stesse che abbiamo percorso e approfondito nei 12 album precedenti: religione, sesso, in definitiva “la vita”. Col tempo però sono cambiate le angolazioni, e questo perché siamo arrivati ad accettare noi stessi. Questi siamo noi. Siamo uomini, adulti, e vogliamo diventare persone a tutti gli effetti.
Un tempo dicevate di essere nati come “reazione a una gioventù problematica e a un cattivo governo”. Prendevate posizione su questioni sociali, anche se in modo ironico. Lo facciamo ancora, ma in chiave molto più personale, puntiamo meno il dito. Abbiamo interiorizzato certe questioni, e ci chiediamo piuttosto cosa possiamo fare noi, in prima persona, per cambiare.
Prima dicevi che se c’è qualcosa del tuo lavoro in cui non credi, che preferisci lasciar perdere. E per anni hai dichiarato che ti sentivi un impostore a cantare versi che non avevi scritto tu. I primi 15 anni sono stati una battaglia. Cercavo sempre di dimostrare qualcosa, di essere un leader. La svolta è arrivata quando ho iniziato anche io a scrivere, o a collaborare con Martin. In questo album per la prima volta c’è un pezzo che abbiamo scritto interamente insieme: è nei contenuti extra. Finalmente siamo sulla stessa lunghezza d’onda, senza bisogno di parlare. Niente discussioni: accettiamo la scelta dell’altro, se capiamo che per lui è importante. Quando sei giovane, pensi di combattere per un ideale mentre spesso stai solo cercando di dimostrare qualcosa a te stesso.
Non avete mai fatto mistero degli scontri tra voi e delle tensioni con cui avete dovuto fare i conti. Durante gli spettacoli, però, c’è sempre un momento in cui ti volti verso Martin e hai l’espressione beata di un bambino. Quel momento capita ancora, nei live, ma anche in studio. Un altro cambiamento importante è stato quando sul palco abbiamo smesso di stare io davanti e gli altri dietro. Lì davanti è un posto dove ci si sente molto soli, credimi. Adesso i ragazzi sono al mio fianco, siamo insieme. E Martin è diventato un grande performer. Non so a che punto della storia sia successo, ma siamo diventati bravi, e abbiamo iniziato a divertirci.
Tu e Martin siete amici?Amici... siamo più come...fratelli. Da cinque anni in qua abbiamo rapporti molto più amichevoli. Ma non posso dire che siamo amici intimi. Lui vive a Santa Barbara, ha i suoi amici con cui esce, si diverte e tutto il resto. Io sto a New York e i miei amici sono qui, o in Inghilterra. C’è questo misterioso accordo per cui lui è 30 anni che scrive canzoni sapendo che sarò io a cantarle. In fondo è lo stesso meccanismo su cui si basavano Lennon e McCartney, o Jagger e Richards. Poi, certo, c’è il legame di aver vissuto insieme in una band per 30 anni. Non so se siamo amici, ma abbiamo un rapporto fraterno.
Visto che lo hai appena citato tu: nell’ultima intervista prima di essere ucciso, John Lennon disse che lui e McCartney si stavano riavvicinando, ma era convinto che l’idea di Paul di rifare una band fosse una stupidaggine. Una band era roba per adolescenti, e lui stava per compiere 40 anni. Voi avete passato la soglia dei 50, come la mettete? Wow. Non conoscevo quell’intervista... Capisco perfettamente quel che diceva Lennon, ma noi stiamo con McCartney. Mia moglie lo dice spesso: che siamo ancora dei teenager, che non sono molto diverso da mio figlio di 10 anni. A me va bene che in un certo senso non siamo cresciuti troppo. Il problema non erano i 20 anni, erano i 25: perché è lì che ho iniziato a chiudermi. E andata sempre peggio, e a 35 ero nei guai. Bisogna mantenersi aperti, per questo va bene essere ragazzini. Probabilmente Lennon voleva dire anche un’altra cosa: che per essere in una band bisogna accettare di avere restrizioni, regole.
Che regole si sono dati i Depeche Mode? Qui entra in gioco il fatto che i Depeche Mode sono diversi dalle altre band. Il cuore dei Depeche sono Martin Gore e Dave Gahan. Siamo una band? Non lo so. L’unica regola è mantenersi aperti, non lasciarsi ingessare da una formula che funziona per 5 anni, e poi chissà. Non so come la pensi Martin, ma credo che sarebbe d’accordo. Quando abbiamo fatto il disco precedente, qualcuno ha storto il naso. Fletch ha detto che non sembrava un disco dei Depeche Mode. Quello è l’atteggiamento che mi spaventa! I Depeche sono la voce di Dave e la musica di Martin, quindi ci saranno delle costanti, ma il resto delle possibilità sono potenzialmente infinite, se lasci che entrino il cambiamento e—in definitiva — la vita.
Questo è il primo disco che esce per la Columbia. Avete ancora rapporti con Daniel Miller, il proprietario della Mute, ovvero l’uomo che vi ha scoperto? E già che siamo in tema: è una leggenda quella che con lui per quasi trent’anni non avete mai avuto un vero contratto ma, come cantavate in Everything Counts, solo “una stretta di mano”? Daniel è tuttora molto coinvolto in ogni aspetto creativo. Senza entrare in complicate questioni commerciali, le uniche cose di cui non si occupa sono la promozione e la distribuzione, che spettano alla Sony. Ed è vero: per molti anni il contratto era fondato solo sulla nostra parola, e tutto ha funzionato alla perfezione. Daniel è senza dubbio un fratello maggiore. Era già un musicista, come produttore era alle prime armi, ma ne sapeva comunque più di noi. Ci ha dato ciò di cui avevamo bisogno, un inizio lento, per niente glamorous, molto da classe operaia. In quel primo, minuscolo, ufficio della Mute andavamo noi stessi a inscatolare i dischi da spedire ai negozi. Ci è servito, ci ha fatto bene.
Girano due teorie opposte riguardo la vera personalità di Dave Gahan... Una dice che sei a tuo agio solo sotto i riflettori. L’altra è che sei più fragile di quanto appari. E anni fa dichiaravi che essere una rockstar, andare in tour ti risultava sempre più faticoso: “Ci riesco perché sono un ragazzo dell’Essex, quando serve gonfio il petto e mi butto nella mischia, faccio finta di essere più grosso di quel che sono”. Sono vere entrambe. E sono ancora capace di fare lo spavaldo a quel modo, se serve. Ha a che fare col luogo in cui sono cresciuto. Basildon era un posto tosto: per anni è stato in cima alle classifiche inglesi della violenza. Dovevi saper far finta di essere un duro anche se non lo eri. Poi c’è l’altra parte di me. A casa c’era sempre musica, mio nonno era un sassofonista jazz: mia madre ricorda sempre che da piccolo, se c’era musica, io ballavo. Scimmiottavo Mick Jagger, i Roxy Music, i T. Rex: facevo dei piccoli show per divertire mia sorella e i fratelli più piccoli. E lì che ho iniziato a sperimentare la sensazione di poter diventare una persona diversa da me: una persona che aveva comunque una relazione con me, ma al tempo stesso era diversa, e piaceva alla gente. E allora che ho capito quanto mi piacesse vivere in maniera riflessa attraverso quell’altra persona.
Prima parlavi di essere finito nei guai per via appunto di “quell’altra persona”. Sì, ma ho anche imparato qualcosa da lei, perché quella persona sul palco è pronta ad accettare la sfida, a dare il meglio di sé, a fare divertire il pubblico, allo stesso modo in cui da bambino divertivo i miei fratelli. L’errore era voler essere sempre quella persona: questo non è possibile. Dovevo essere anche un padre, un marito. Non sono ancora arrivato dove vorrei. Ci vuole una vita a imparare, vero?
Allora è vero, sei davvero molto duro con te stesso! Sì, ma è per una buona causa. Ad esempio: ovviamente lo so di essere molto migliorato, rispetto anche solo a io anni fa, ma allo stesso tempo so che questo non è ancora il punto esatto che vorrei raggiungere. Sono inquieto, e non esattamente tranquillo. Però adesso sono molto più tranquillo e molto meno inquieto. Mi piace quello che faccio, mi piace creare musica. Mi piace la sensazione di entrare con qualcuno in una stanza e di uscirne qualche ora più tardi con una nuova canzone che prima non esisteva! Non sono il tipo che si siede da solo in uno studio con la chitarra e inizia a strimpellare. Ci ho provato, l’ho fatto: ma per me non funziona a quel modo. Lavorare con altri mi permette di mostrare lati di me che diversamente non sarei capace di aprire.
Hai scoperto di essere uno che gioca per la squadra. Da giovane mi ci ribellavo, è una cosa difficile da ammettere. Ero certo di avere le risposte giuste per tutto, ma in realtà non sapevo un accidente. Quando deviavo dal percorso che credevo giusto, iniziava la sofferenza. A un certo punto ho capito che dovevo rimanere aperto alle idee e ai suggerimenti degli altri. Sono migliorato tanto, da questo punto di vista. Ma anche Martin. Stavolta ci siamo trovati aperti l’uno nei confronti dell’altro come mai era successo in precedenza, davvero.
Un paio di volte mi è capitato di assistere a scene di fan di tutte le età in delirio al solo sentir pronunciare il tuo nome. Chi è il sex symbol, allora: Dave o “l’altra persona”? Oh, mamma! Lo so, capita: ed è una cosa che mi onora, dato che ormai sono abbastanza grandicello... E una cosa strana, che colpisce entrambi i sessi: non so da dove provenga. Ho deciso di mantenere una certa ambiguità e mistero a riguardo, perché mi aiuta a essere qualsiasi cosa sul palco. Voglio che io — cioè quell’altra persona che divento — sia movimento, musica, libertà. Voglio che tutti si sentano liberi di essere ciò che vogliono essere, senza sentirsi giudicati. E una cosa molto difficile da ottenere in questa vita. Mia figlia, 13 anni, era alla cerimonia di insediamento di Obama, ed è rimasta profondamente colpita da quanto lui ha detto sulla libertà sessuale. E per questo che stare su un palco è ancora così importante: io lo sento proprio come un dovere. Puoi ispirare le persone a essere più libere, a provare cose nuove, e soprattutto ad andare al di là dell’individuo, ad abbracciare il tutto.
Trent’anni e più di Depeche Mode: cosa ti è rimasto ancora da dire o da fare? Cerco ancora di fare un buon show. Cerco ancora una buona canzone, e cerco di cantarla bene. E tutto lì, in fin dei conti. Per il resto, cerco di crescere: ma il nostro non è esattamente un mestiere che ti aiuta a crescere, no...