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 2013  aprile 14 Domenica calendario

TULLIO GREGORY

E’ singolare che a 84 anni Tullio Gregory abbia sentito l’urgenza di misurarsi con il diavolo. Di solito è un’età in cui ci si rivolge a Dio e alle mani benedicenti dei santi. Ma le tentazioni, a volte, non badano troppo alla carta d’identità. Perciò da questo tardivo incontro con Belzebù ne è venuto fuori un libretto arguto, leggero e dotto. Gregory vive al quinto piano di un edificio umbertino proprio di fronte a quello che i romani chiamano il “palazzaccio”, un tempo sede della Giustizia.
Vado a trovare l’uomo che con eguale acribia si è occupato del cogito cartesiano e della storia del pomodoro, di Montaigne e Carnacina, dell’io penso e dell’io mangio. Mi aggiro per la vasta casa con curiosità. Pareti di libri ovunque. Il professore (oggi emerito, un tempo ordinario di storia della filosofia a Roma) dichiara di possederne trentamila. In una stanza di passaggio fa bella mostra un oggetto che a prima vista non riconosco. Scopro essere un carrello per i bolliti. Lì, nella penombra che le tende semichiuse creano, volge la sua sagoma di alluminio e legno allo sguardo sorpreso: «Lo presi da una vecchia trattoria di Modena che stava chiudendo», dice il professore mentre accarezza la superficie del parallelepipedo.
Cosa l’ha divertita di più: occuparsi di filosofia o di cucina?
«Entrambe in modi diversi sono entrate nella mia vita. L’importante era non confondere i piani, non mescolare i codici. Insomma non fare pasticci. Occorre essere equi, dare a ciascuno il suo».
L’equità richiama il senso di giustizia, lei vive permanentemente sotto lo sguardo del “palazzaccio”. Cosa le suggerisce?
«La giustizia è una struttura burocratica lenta che va difesa. Se la mettiamo in discussione è finita. E quel palazzo di fronte che vede dalla mia finestra ha un’aria ammonitoria. Fu una delle grandi imprese umbertine. Di cui resta ben poco. È il simbolo di una città abbandonata
a se stessa».
Lei è nato a Roma?
«Sì, ma da un padre milanese e una madre spezzina. Ho sempre vissuto, studiato, lavorato in questa città che, malgrado tutto, continuo ad amare».
Malgrado cosa?
«L’indifferenza, lo sbraco, la corruzione e una pubblica amministrazione che fa il possibile per renderla invivibile. La mancanza di attenzione
per i nostri beni culturali fa spavento. Ma il disastro è più generale. Siamo senza attese. Come dice una canzone napoletana: “Aggio perduto ’o suonno e ’a fantasia”. Dove la fantasia è la capacità progettuale. L’uomo vive di progetti e non di pura contemplazione dei fatti. Ma il paese è stanco e
senza esempi».
La filosofia aiuta?
«È uno strumento che serve a fare chiarezza nel pensiero. Ma sono scemenze le argomentazioni che dicono che essa aiuta a trovare la felicità».
Lei perché si è occupato di filosofia?
«Ebbi la fortuna a 14 anni di conoscere Ernesto Buonaiuti. Frequentai le sue lezioni sul greco nel Nuovo Testamento. Vide questo ragazzino con i pantaloni alla zuava e mi chiese che ci facevo io lì. Risposi che mi piaceva il greco. Mi venga a tro-È
disse. E aggiunse: sappia però che sono un prete scomunicato. Cominciai, grazie a lui, a interessarmi di storia del cristianesimo. E poi il passo verso la filosofia non fu così lungo. Mi laureai nel 1950 con Bruno Nardi, un grande medievista e studioso di Dante».
I suoi studi sono stati a cavallo tra il Medioevo e il mondo moderno. Qual è la differenza fra queste due età?
«È nei modi di pensare. Anche se la cultura medievale entra in quella moderna — e quindi permane, sopravvive, la alimenta — in realtà c’è una frattura. La storia è fatta di smottamenti e rotture, ma è necessario capire il contesto in cui si forma la cultura dei vari Montaigne, Descartes, Galileo, per fare i nomi di alcuni protagonisti assoluti. Il loro apprendistato avviene nell’ambito della cultura scolastica».
Cosa si intende con “scolastica”?
«Una cultura di base aristotelica accomodata ad alcune esigenze della tradizione cristiana. Uscire da questo ambiente significava cambiare modo di pensare e di scrivere».
Ci faccia capire bene. Per esempio in che cosa consiste il contributo di Montaigne?
«È il primo a intuire gli effetti della scoperta del nuovo mondo. Quando negli
Essais
dice che tutto crolla intorno a lui, intende non solo che il mondo è finito, ma che uno nuovo si approssima. Le conquiste del moderno servono a Montaigne per negare la possibilità di soluzioni definitive».
È uno dei primi esempi di un sistema aperto e rivedibile. Diverso da Descartes che, con l’elogio del metodo, esibisce il volto duro della modernità.
«La sicurezza trionfale che mostra per le sue scoperte e intuizioni filosofiche è stupefacente. Non a caso sarà accusato di essere l’iniziatore di una nuova scolastica. Le sue analisi sul cogito sono una parte importante della rivoluzione copernicana ».
E poi c’è Galilei.
«Si dimentica spesso che la sua scienza distrugge i capisalvare,
di dell’aristotelismo: l’incorruttibilità del mondo celeste crolla. Quando Cesare Cremonini davanti al cannocchiale dice: preferisco non guardare perché queste cose mi imbalordiscono la testa, è l’aristotelico che parla e che ha paura di essere smentito dai fatti».
«È decisiva sia nell’uso del latino che in quello più vasto del volgare che diventa il veicolo del nuovo modo di pensare».
«Se parliamo dell’Italia credo nessuna percezione. Non abbiamo una politica della lingua, e nessuna voglia di capire che essa è il riflesso di una storia culturale più ampia. Gli sms, le mail stanno destrutturando la lingua. Velocizzano l’informazione ma al tempo stesso la banalizzano e la riempiono di errori
».
Lei scrive con il computer?
«No, preferisco la stilografica: il pennino deve flettersi al pensiero. Peccato che non si vendano più le bottiglie di inchiostro da un litro».
Ostile alla tecnologia?
«Per niente. Il Lessico Intellettuale Europeo che ho creato e diretto per 40 anni, ha la più grande banca dati per i neologismi. Siamo stati tra i primi a porci il problema dell’informatizzazione del settore umanistico. Non demonizzo il compu-ter, dico semplicemente che aver creato una biblioteca virtuale enorme non ha aumentato la lettura dei testi».
A proposito di demonizzazione, come le è venuto in mente di scrivere un libro sul diavolo?
«L’idea è nata in soggiacente polemica con quei filosofi e
teologi che sempre più tendono a fare del diavolo una rappresentazione simbolica del malore della coscienza o della nostra difficoltà a operare per il bene».
Un po’ è così.
«Non credo che si possa mettere il diavolo ovunque. Nell’ambito della spiritualità cristiana, e solo in quello, è un soggetto storico. Ho cercato di capire come ragionavano i medievali. Perché, insomma, il diavolo nell’esperienza cristiana non è solo il principe di questo mondo, come si legge nel Vangelo di Giovanni, ma in senso proprio colui che governa tutto quello che appartiene alla sensibilità del mondo degli uomini: è il grande attore della storia. E lo sarà fino al tramonto del sacro».
C’è un nesso tra il diavolo e il sacro?
«Strettissimo. Altrimenti non riusciremmo a spiegare, in un rigoroso monoteismo, la presenza del male. Dio è il bene, ma ti lascia libero di agire. Ma non ti lascia libero di fare il male. Ecco allora nascere l’idea che c’è qualcuno che trama contro Dio. Nello spirito del cristianesimo la presenza del diavolo è antagonistica, dualistica. Oggi un tale schema non avrebbe senso».
Da Dostoevskij e Melville fino a Thomas Mann, la presenza del male è tuttavia qualcosa di imprescindibile.
«Ma non è riconducibile a un soggetto storico come è appunto il diavolo in una certa fase del cristianesimo. Oggi l’inferno non si compone di fiamme e forconi ma è la vita di un disoccupato che non riesce a sfamare la propria famiglia. Giorni fa uno studente mi ha chiesto come spiego la nascita di un bimbo deforme».
Cosa ha risposto?
«Gli ho detto che non si può convocare il maligno, come si sarebbe fatto nel Medioevo. D’altra parte, neppure una spiegazione laica sarebbe sufficiente».
«Crede che i genitori di quel bimbo si accontenterebbero di una ipotesi scientista? Non possiamo pretendere di avere una comprensione totale della realtà, restano zone sconosciute e dobbiamo essere abbastanza modesti per accettarlo».
Rinvia alla fede?
«Semmai alla durezza e ai limiti della ragione».
Qual è il suo rapporto con la fede?
«Non ho rapporti se si intende una fede religiosa. Sono fuori dalle chiese come adesione a una dogmatica o a una precettistica. D’altro canto, fede è sostanza di cose sperate, così Dante traduce Paolo. Voglio dire che il comportamento sul nostro futuro solo in parte è dettato dalla ragione. E se non ne accetti i limiti, rischi le manie di onnipotenza. È sempre stato un punto capitale del mio insegnamento, sia a Roma che a Parigi, impegnarsi nell’uso duro e demitizzante della ragione, ma alla luce del dubbio. Chi è sicuro di sé può diventare un tiranno ».
All’università lei ha avuto la fama di essere un gran barone, insomma un uomo di potere.
«Girava questa voce. Tanto è vero che dicevo: chiamatemi principe, baroni sarete voi. Sono stato dentro un sistema di potere che decideva nomine e posti. Non nascondo l’arbitrarietà a volte di certe scelte. Oggi prevale l’aziendalismo. Non mi si può rimproverare di aver messo in cattedra degli imbecilli. A meno di non considerare tali Francesco Valentini, Emilio Garroni, Lucio Colletti».
Che ricordo ha di quest’ultimo?
«Un amico, un grande studioso, ma cinico in maniera assoluta».
Chi è un maestro?
«Qualcuno che per il suo insegnamento riceve la stima dei suoi allievi».
Una volta in cattedra gli allievi spesso gli voltano le spalle.
«Succede, è nelle cose umane. Ma non ci si deve pentire di quello che si è fatto. Basta averlo fatto bene. Vale per tutto».
Anche in cucina?
«Se mangi cerca di capire cosa e come deve essere fatto. E poi c’è l’incontro a tavola. Voltaire vi ambientò alcuni suoi romanzi. Perché attorno alla tavola cadono le barriere dogmatiche. Si diventa più tolleranti».
Siamo lontani dal Simposio?
«Si è su quella linea senza gli orpelli platonici».
Cosa fa durante il giorno?
«La mattina in casa tra i miei libri, tre pomeriggi alla settimana alla Treccani, abbiamo completato il Lessico del XX secolo ».
La lingua si deprava?
«No, cambia perché è storia. Non mi ritengo un purista».
Appagato per tutto quello che ha fatto?
«Ho avuto molto dalla vita ma continuo a vivere di progetti. Sono felice del bel rapporto che ho con le mie due figlie: una è medico l’altra è architetto».
Si vede che non è una persona malinconica.
«L’umor nero a volte viene, quando meno te lo aspetti».
E se arriva che fa?
«Intanto, cerco di rompere il meno possibile e poi mi cucino due spaghetti, alla matriciana o alla carbonara. Sono efficaci contro la malinconia».
Degli antidepressivi?
«Meglio del Prozac, glielo assicuro».