Stefano Bartezzaghi, la Repubblica 14/4/2013, 14 aprile 2013
DIZIONARIO DEL NULLA
“Banana”, sostantivo femminile: frutto. Significati estensivi. 1. Per la provenienza tropicale, simbolo di stati esportatori di banane e politicamente instabili; vedi Woody Allen, Il dittatore dello stato libero di Bananas
(film, 1971); Dalla-De Gregori, Banana Republic
(disco live, 1979). 2. Per la morfologia, simbolo fallico; cfr. Alberto Sordi, Ma ’ndo vai (canzone, 1973); Michael Chacón, El único fruto del amor (canzone, 2000). Al primo significato estensivo si riferì Gianni Agnelli, nel 2001, obiettando ai severi giudizi della stampa estera su Silvio Berlusconi: «L’Italia non è una repubblica delle banane». Di conseguenza, Francesco Tullio Altan, fondendo i due significati estensivi, prese a disegnare lo stesso Berlusconi in veste di branditore e intrusore intimo di vistose banane, con il nome di Cavalier Banana (Banane, Einaudi 2002). Il soprannome è rimasto: «Banana - Culatello: una rosa di nomi per il Quirinale» (titolo di Dagospia, 9 aprile 2013). Vedi alla voce Culatello.
Un dizionario realistico della lingua italiana contemporanea dovrebbe adottare questo modello? Più realistico rassegnarsi: parole e accezioni che servono per comprendere chiacchiere, giornali, telegiornali, siti (ove spesso una banana non è una banana non è una banana non è una banana) non si trovano tutte sui normali dizionari. Ci intendiamo tra forzature linguistiche di ogni genere. In sms e messaggi vari «cmq» non sta per il dizionariale «centimetri quadrati» ma per «comunque ». Se ogni solecismo ispira puntuti tweet (nella sua ultima apparizione televisiva a Roberto Saviano non sono stati perdonati gli scorretti, ancorché vulgatissimi, «piuttosto che» disgiuntivi), in Italia si considerano «grandi comunicatori» personaggi come Beppe Grillo, Silvio Berlusconi, Michele Santoro o Antonio Di Pietro, nessuno dei quali brilla per scrupolo grammaticale. Tullio De Mauro, tutt’altro che un talebano della lingua, ha diffuso dati che ha definito catastrofici: «A un 5 per cento della popolazione adulta in età di lavoro manca la capacità di verificare il valore delle lettere che ha sotto il naso. Poi c’è un altro 38 per cento che identifica il valore delle lettere ma non legge».
L’ultimo annuario disponibile (Lingua italiana d’oggi,
Bulzoni, 2012, direttore il linguista Massimo Arcangeli) dedica una sezione a esplorare i molti gruppi che su Facebook sfogano umori sulfurei sulle sorti del congiuntivo («Se potrei scegliere»), sugli usi dell’apostrofo («Qual’è»), sugli anglismi sconsiderati («Possibile downgrade del rating») che sono i punti principali su cui si concentra un sentimento, diffuso tra persone di normale scolarità, di smarrimento e di minaccia subita dalla lingua. È forse a questo sentimento che si rivolge la fioritura di innovative opere di consultazione come il recente Dizionario delle collocazioni
(Zanichelli) che recensisce per ogni parola gli accostamenti più codificati (per esempio: fiato: corto, grosso, sospeso; avere, consumare, mozzare, prendere, restare senza, sprecare, trattenere).
Bisogna peraltro ammettere che la quantità e la velocità dell’espressione rendono comunissime le sviste, per quanto accurati si vorrebbe essere; gli apparati di correzione che hanno sostituito il controllo umano aiutano poco, quando non producono errori essi stessi. Sulle minuscole tastiere degli smartphone il nostro pollice si oppone perlopiù alle nostre intenzioni: sbaglia tasti, accetta improvvidi suggerimenti del software, magari invia quanto vorremmo invece cancellare. Di più: lo scritto si è ravvicinato enormemente all’orale, digitiamo caratteri con l’immediatezza con cui erogheremmo fonemi e anche a persone che alla lingua tengono (si parla per esperienza diretta) càpitano cantonate incresciose, da scuola elementare, gli «ha» senz’acca e i «sufficente» senza I. Di conseguenza, quando siamo invece nelle più rassicuranti vesti di destinatari, ci disponiamo non a leggere ma a interpretare i messaggi che ci arrivano.
Come dalla parola pensata a quella scritta passa un niente (in tempo e in controllo), così dalla parola letta a quella compresa c’è sempre bisogno di un’elaborazione secondaria. Chi non la compie corre il rischio della madre americana che, letto sull’iPhone che il figlio aveva fatto coming out, gli ha subito risposto: «Ho sempre avuto il vago sospetto. Ti voglio bene in ogni caso. E so che tuo padre la pensa come me». Peccato che il figlio non volesse informare «sono gay e l’ho appena reso pubblico» (I just came out of the closet), bensì: «sono appena uscito dalla clinica» (...came out of the clinic).
Il suo iPhone aveva operato la rovinosa autocorrezione. Ne avranno discusso a cena.
L’elaborazione secondaria diventa necessaria e consapevole quando si legge che Banana boccia Culatello, quando i grillini passano dal «vaffanculo» al burocratese del «rendicontare» e della «prorogatio», quando un amico ci dice «si è fatta una certa », il cameriere ci propone «bollicine», il giornale economico informa: «Il Ftse Mib accelera sopra 15.600, spread vicino a 300» e quello sportivo apre con titoli come «Juvendetta », «Balomania» o «Palashow» (non da palazzo ma da Rodrigo Palacio, punta interista). Tutti questi diversi esempi hanno un unico elemento comune: sono gergali. Quello delineato all’inizio non sarebbe infatti un dizionario della lingua, bensì del gergo e anzi dei gerghi italiani.
Slang, argot, gerghi, lingue «furbesche», idiomi tecnici settoriali sono sempre esistiti: circolano fra gruppi sociali individuati da appartenenze di ceto, età, professione, interessi e li delimitano escludendo i non iniziati. Ma come i comici hanno capito per primi e insegnato a tutti gli altri il gergo è espressivo, molto più di una lingua di tradizione scritta e letteraria come è l’italiano. La logomachia italiana è diventata così una battaglia (a volte più, a volte meno scherzosa) fra gerghi, ognuno uscito dall’unico ambito in cui è opportuno e sensato usarlo per puntare all’egemonia sulla paziente elaborazione secondaria degli ascoltatori. Ci siamo così abituati all’aziendalese, allo stadiese, al bocconese, mescolati all’immortale burocratese e agli apporti giovani-listici, nerd, bloggaroli, con cospicue iniezioni di angloide e deformazioni comiche (volontarie e non).
Dizionari, puntualizzazioni, sforzi di dare il buon esempio, giochi come le invenzioni linguistiche elaborate da Andrea Bajani con studenti teenager (che coniano neologismi come «disonestar», furfanti di successo; o «disfuturi», rinunce al domani; se ne parlerà al Salone del Libro di Torino): le forme di presidio linguistico in atto si oppongono non tanto al solecismo occasionale, alla sciatteria che sfugge, allo «schernire » usato con convinzione al posto di «schermire», quanto al totalitarismo della deriva gergale che pare ignorare, questa volta consapevolmente, che la lingua nazionale è l’opzione da preferire, quando non ci si rivolga a qualcuno della propria circoscritta tribù. Fuori da tale tribù, «parlare la stessa lingua» è il contrario di quello che sembra essere diventato il motto condiviso: facciamo a capirci. Suona meglio in romanesco, ovviamente.