Leonetta Bentivoglio, la Repubblica 14/4/2013, 14 aprile 2013
SUSANNA TAMARO
ROMA Susanna Tamaro è appena rientrata da un tour di letture dei suoi testi in Germania, uno dei paesi stranieri nei quali è più famosa, con la Turchia, la Spagna e quelli del Sudamerica. Autrice di libri tradotti in una cinquantina di lingue, coltiva con affetto e disciplina il suo pubblico folto e internazionale di ammiratori, grata alle aspettative che la riguardano e solerte nel rispondere alle numerose mail che riceve. «In Germania ho partecipato al festival letterario di Lipsia», dice sorridente. «Bello avere la sala piena di spettatori attenti e informati sul mio lavoro. A Colonia ho fatto letture su un battello che navigava sul Reno, davanti a quattrocento persone. Mi piace il dialogo con i lettori, è uno degli aspetti che nutrono il mio equilibrio». Condizione che per lei è stata una conquista sofferta, come spiegherà durante quest’incontro.
Raggomitolata su un divano del suo appartamento di Trastevere (ma la casa “vera” è a pochi chilometri da Orvieto, immersa nel verde), Susanna è una figura minuta, estranea a qualsiasi tentazione di vanità. Il contesto le assomiglia: non c’è la minima affettazione nell’arredamento dai colori allegri. Allo stesso modo tutto, nella sua persona, ignora le sottolineature. Nel modo di fare è asciutta. Però è anche docile, protesa all’ascolto. La zazzera è corta e geometrica, lo sguardo è di una limpidezza quasi allarmante. Ha un piglio androgino e giovanilissimo, da adolescente o da folletto, non intaccato dai suoi cinquantasei anni. Un guizzo che deliziava il suo scopritore, Fellini. «Nel 1991 uscì la mia raccolta di racconti Per voce sola, un viaggio nel dolore concepito come un insieme di storie connesse da un filo rosso di emozioni. Fellini lo divorò in una notte, e si commosse al punto che lanciò il libro ricorrendo a un
parallelo con Charles Dickens. Lo ricordo come un uomo tanto solo, rimasto prigioniero del suo mito».
Via via sempre di più, negli anni, il suo destino di scrittrice indipendente — lontana da filoni e gruppi di tendenza, fedele a un proprio stile netto e arioso, scopertamente sensibile alla dimensione etica, interessata alla contraddittorietà dei sentimenti umani — è stato accolto da consensi massicci. Ma a volte contrastati dalla critica, con cui ha avuto rapporti altalenanti. Grazie alle vendite dei suoi romanzi è divenuta un personaggio mediaticamente “esposto”, e il ciclone ha raggiunto l’apice con Va’ dove ti porta il cuore,
un fenomeno da quindici milioni di copie: «È il mio libro più noto e al tempo stesso più misconosciuto. Certe persone, forse accecate dal titolo, l’hanno trattato come un revival dozzinale di Liala. Invece è un’opera crudele, che attraversa le inquietudini e i turbamenti del Novecento. Tra l’altro nessuno ne ha colto le citazioni letterarie. La madre della protagonista è la più piccola delle sorelle Malfenti de La coscienza di Zeno
di Italo Svevo, di cui sono la pronipote. In entrambe le storie il cane si chiama Argo, e anche la casa è la stessa».
Va’ dove ti porta il cuore le ha dato una popolarità grande e pericolosa, «perché il successo, con le sue lusinghe, può alienarti da te stesso. Rispetto al rischio credo di averla fatta franca, creativamente ed esistenzialmente, perché sono un’isolata allergica al potere, all’esteriorità, ai giri letterari, ai salotti dell’intellighenzia e ai programmi televisivi. Ho continuato a scrivere abitando in campagna, stando in mezzo alla natura e sviluppando i miei studi di zoologia, botanica e soprattutto di entomologia. È questa la mia vera vocazione, fondata sulla memoria e la capacità di osservare e stabilire collegamenti. Se si trova una nocciola sbocconcellata in un bosco, da lì si può ricostruire un’intera storia. Anche la scrittura è fatta di nessi da indagare. A salvarmi ci sono stati pure gli amici, che per me contano molto. Non ho mai frequentato cortigiani o adulatori. Essendo molto dedita al sentimento dell’amicizia, che è libero e gratuito, vengo felicemente ricambiata».
All’inizio di quest’anno è uscito il suo Ogni angelo è tremendo, che da varie settimane oscilla tra i dieci primi posti della classifica dei best-seller, e che è già arrivato a vendere centotrentamila copie, riconfermando il suo rapporto fortunato coi lettori. È il più autobiografico dei suoi libri, «anche se non contiene alcun compiacimento o narcisismo. Ho sentito il bisogno di un percorso all’indietro nel tempo, in quel vissuto che avrebbe fatto scaturire i miei racconti e romanzi.
Ogni angelo è tremendo è una mia vita ripensata, un’invenzione del vero, secondo la lezione mitteleuropea di Elias Canetti, di cui ho ammirato La lingua salvata.
È uno dei miei autori di riferimento insieme a Kafka e ai grandi russi come Cechov e Dostoevskij».
In Ogni angelo è tremendo, che mutua il titolo da un verso di Rilke, è molto forte la presenza di Trieste, sua città natale, «nel senso che, andando alla ricerca del mio mondo narrativo, ho finito per parlare degli influssi che un territorio particolare può avere su una creatività. La memoria della morte e della violenza in quel contesto, con le due guerre incombenti nei ricordi e nelle rovine, è stata decisiva per il mio rapporto con la letteratura e la scrittura». Alla patologia della Storia impresso nel volto di Trieste s’è mescolata la patologia della sua terribile famiglia originaria, afflitta da un sadismo pedagogico molto ben raccontato nel libro, fondato su relazioni algide e svuotate di significati da un’indifferenza affettiva senza scampo. La bambina Susanna cresce tra paure angosciose e un’insonnia inguaribile, in una città segnata da una diffusa follia e battuta dai venti ubriacanti della bora. In questo catturante memoir “al nero” vengono ritratti come due splendidi aguzzini i suoi genitori, tanto desiderati quanto irraggiungibili: «Mia madre era glaciale, persa in una specie di disturbo bipolare. Mio padre era bello e indecifrabile. Muto, incapace di comunicare. Entrambi erano il frutto delle devastazioni della guerra. Insofferenti ai legami, avevano alzato muri invalicabili dentro se stessi. All’epoca, disperata com’ero, pensavo che tutti i genitori fossero come i miei. Solo scrivendone ho compreso quanto fossero spaventosi. Non è stato facile liberarmi dai loro fantasmi, ma alla fine sono giunta a una pacificazione». Da ragazza era disperata, «confusa e allo sbaraglio. È stata la scrittura a farmi andare avanti, invadendomi all’improvviso e in modo misterioso, come un terzo occhio apertosi dentro di me. È una forza capace di procedere per proprio conto. Lo fa anche adesso: a ogni nuovo libro mi sento come abitata e scrivo intensamente, rapidissima, quasi senza correggere».
Ogni angelo è tremendo è il suo debutto con l’editore Bompiani, a cui la Tamaro è approdata dopo aver lavorato con Giunti, Rizzoli, Baldini e Castoldi e Marsilio. Bompiani aveva preparato il terreno di questo suo nuovo successo sfornando, subito prima, le edizioni economiche di titoli passati, di volta in volta aperti da testi di presentazione della scrittrice. Sono così tornati a circolare Per voce sola, Va’ dove ti porta il cuore, Anima mundi, Rispondimi, Fuori, Ascolta la mia voce e Luisito.
Il 15 maggio, sempre per Bompiani, è fissata la riproposta di Cara Mathilda, Più fuoco più vento, Ogni parola un seme, Verso casae L’Isola che c’è.
Nelle varie introduzioni, Tamaro delinea il proprio orientamento e smonta le accuse che le incombono addosso. Come quella di sentimentalismo
che colpì Va’ dove ti porta il cuore, o come gli attacchi feroci rivolti ad Anima mundi, «che mi fecero tacciare di fascismo, proprio un’infamia. Rivendico l’importanza di un libro centrale nella mia produzione, che affrontò il comunismo dall’orizzonte di una persona come me, nata e cresciuta a pochi chilometri dal confine. Osai toccare la vicenda degli italiani di fede comunista che erano andati a vivere in Jugoslavia per contribuire a costruire l’utopia e che, quando Tito si staccò dalla Russia, vennero internati nei lager dai loro compagni. Non è un libro sull’ideologia comunista, ma sulla sofferenza prodotta dal fallimento del comunismo».
C’è poi una cosa che la offende ancor di più, ed è l’essere stata definita antifemminista perché ha dichiarato di non riconoscersi nel femminismo militante che era in primo piano negli anni della sua giovinezza: «Alle parole e agli slogan ho preferito gesti concreti, creando una fondazione che si occupa di avviare progetti di sostegno per lo studio e il lavoro femminile e partecipando alla costruzione di una casa rifugio per le donne maltrattate». Dice d’indignarsi per la «deformazione e manipolazione del corpo della donna che intossicano la nostra società. Un processo che parte da lontano: le bambine assumono modelli abominevoli dalla tivù. C’è una violenza sulla donna continua, sottile, perversa, che infierisce sul suo corpo. Sembra impiantata nell’immaginario collettivo e ormai nessuno se ne scandalizza più». Susanna conduce con serenità le sue battaglie, in attesa della prossima invasione di scrittura: «Molto mi arriva dall’inconscio. Quando nasce in me una nuova storia sono agitata da qualcosa che si muove nel profondo. Di notte faccio sogni erratici, con carovane di zingari, carri e transumanze. E capisco che in quel momento è cominciato il mio viaggio nella creatività».