Mario Serenellini, la Repubblica 14/4/2013, 14 aprile 2013
SIMPSON PRIMA DEI SIMPSON
SIMPSON PRIMA DEI SIMPSON –
PARIGI
Mago della matita, Matt Groening ha estratto conigli da un tavolo da disegno, e da quei conigli ha tirato fuori il successo planetario dei Simpson. La gialla famiglia è infatti frutto d’un ripiego, di una seconda scelta. In principio, a partire dal 1978, furono i conigli a fumetti di
Life in Hell (“Vita all’inferno”, ma anche
d’inferno) disegnati per la rivista off Wet e l’alternativo
Los Angeles Reader.
«Sette anni dopo — come ci ricorda l’autore — un produttore di Hollywood mi chiama e mi chiede una versione animata delle strips per la trasmissione della Fox
The Tracey Ullman Show.
Ma, temendo di perdere i diritti della pubblicazione e dubbioso sull’esito del tele-trapianto, che avrebbe potuto affossarmi fumetti e carriera, buttai giù in un quarto
d’ora, mentre facevo anticamera dal produttore, una nuova fauna domestica, adattando di corsa le fisionomie dei miei conigli, e mantenendone però la natura bislacca».
E così tra scetticismo e improvvisazione nacquero
I Simpson, il più grande successo mondiale d’una serie tv, oltre cinquecento puntate in un quarto di secolo (senza contare che Life in Hell continua una sua vita parallela su duecentocinquanta settimanali, il miliardario merchandising, lo spassoso lungometraggio del 2007 e i corti sparsi, tra cui The Longest Daycare, candidato all’Oscar, oggi in prima italiana al Future Film Festival di Bologna). Ora, in occasione dell’uscita negli Usa e in Francia della nuova edizione di The Huge Book of Hell,
compilation riassuntiva di trentacinque anni di vita all’inferno e a fumetti, Groening rimescola per Repubblica
origini e tappe del trionfo: dai conigli ai Simpson, dalla carta al cartoon. Confidandosi, dallo studio californiano di Santa Monica, con la giovialità della sua simpatica stazza transoceanica, avvolta come sempre nell’esuberante camicione hawaiano.
I Simpson sono la sitcom più longeva nella storia della tv americana. Quale crede che sia il primo segreto del loro successo?
«Come tanti, ho sprecato una buona fetta della mia giovinezza davanti al teleschermo e bisognava pure che trovassi il modo di recuperare tutto il tempo perduto (ride, ndr).
Quanto a loro, ai Simpson intendo, hanno una comicità a strati: hanno le gag visive che piacciono a tutti, le allusioni parodistiche in cui si crogiolano intellettuali e adulti, ma anche le trovate grossolane che fanno impazzire i miei figli, Homer e Abe».
La sua matita è acida, la comicità iperbolica, delirante, talora anche nera, le sue idee sono una condanna ineluttabile degli assurdi della nostra società.
«Devo dire che è una bella soddisfazione far passare le mie idee sulla vita made in Usa attraverso
dei disegni animati. Ti dà l’impressione d’essere un dio: crei un intero universo e spingi un sacco di gente a comportamenti orrendi, e lo fai solo per tuo capriccio! (altra risata, ndr).
Ma detto ciò a me pare d’essere un bonaccione a confronto di maestri come Robert Crumb di Fritz il gatto
o di Art Spiegelman diMaus, o di Lynda Barry di
Star bene mi uccide.
Sono solo un cinquantanovenne che con i dentini da latte ha divorato i Peanuts di Schulz, la mia prima vera spinta al fumetto di Life in Hell ( ma sfido chiunque a trovare parentele con Snoopy o Charlie Brown). E che a sette anni, avendo visto La carica dei 101, ha voluto crearsi un mondo di cartoon tutto suo».
Quando parla di “un universo pieno di gente che si comporta orrendamente” sta pensando a Hollywood?
«Chissà. Mi sono trasferito a Los Angeles dalla natìa Portland, nell’Oregon, dopo la laurea, a ventitré anni: sognavo di diventare uno scrittore famoso. Ma, anziché sfondare sulle riviste con articoli geniali, ho dovuto subire una sequela d’ingaggi riprovevoli,
tipo: comparsa nel film When Every Day Was the Fourth of July, lavapiatti in un pensionato, autista e “negro” d’un regista rimbambito di ottantotto anni ansioso d’immortalarsi in un’autobiografia. Mentre stavo al volante, il vecchiaccio mi raccontava la sua vita per filo e per segno, senza dimenticare una virgola. Non c’è voluto molto perché Los Angeles e i suoi lavoretti diventassero il mio inferno.
Life in Hell effettivamente è nato così: una valvola di sfogo a strisce, un modo di scherzare
Succedeva dieci anni prima dei Simpson, spuntati il 19 aprile 1987: avrebbe mai sospettato, allora, che sarebbe poi diventato l’autore d’una storica serie animata della tv?
«Macché. All’epoca le strisce di Life in Hellle fotocopiavo una per una e le vendevo ai passanti. Racimolavo di che vivere come commesso al rock club “Whiskey A Go Go” e al “Liquorice Pizza”, negozio di dischi che calamitava rockstar. La specialità del locale, a dispetto del nome, non era la pizza alla liquirizia ma la vendita di vinili, accompagnata sotto banco da elaborati kit per spinelli o cocaina. Un traffico fitto d’effetti imprevisti, come appunto la richiesta finale da parte dei fan più appagati di una pizza alla liquirizia».
Life in Hellè anche un manifesto del ribelle, del diverso?
«La mia intenzione era di farne un Peanuts postpunk, e infatti attirò subito il milieu underground di Los Angeles. I personaggi principali sono Binky, strambo coniglio nevrotico dai denti finti, Akbar e Jeff, coppietta di gay, forse gemelli, comunque identici, osteggiata dal gretto vicinato, e Bongo, coniglietto con un solo orecchio, perseguitato da incomprensioni e sadismo di insegnanti, genitori e terapeuta. È una critica acre e disillusa dell’american way of life: Life in Hell, appunto».
Il tema dei fuori-norma, refrattari agli stampini sociali, ricorre anche nei Simpson. Perché?
«Life in Hell continua a intenerirmi, mi sento anche un po’ un loro complice. Neanche dopo l’invasione dei
Simpson me ne sono separato. Diciamo che con il fumetto ho cercato di portare il sorriso nei negozi specializzati, sempre un po’ sinistri, e con i cartoon ho voluto offrire ai teledipendenti un’alternativa alle solite schifezze. Ma effettivamente sia gli uni che gli altri vanno di traverso, ancora oggi, ai benpensanti americani. Ai quali risulta difficile accettare la critica della mediocrità, di cui Homer ha fatto un valore, e la denuncia dell’incompatibilità tra il Potere e le aspirazioni della gente comune. A proposito, come va da voi?».
Lasciamo perdere. I conigli di Life in Helle i gialli Simpson
sono gli alieni più prossimi al nostro quotidiano. E sono alieni americani, ma al tempo stesso universali, è questo che intende dire?
«La cattiveria e la stupidità umane non hanno confini. Lo sguardo impietoso sui miei simili è forse facilitato dal fatto che sono uno dei tanti americanimacedonia, uscito da una covata di cinque figli: madre norvegese, insegnante, Marge Ruth, padre tedesco, Homer, omonimo del capofamiglia dei Simpson e del mio primogenito. Lui stesso fumettista, oltre che pubblicitario e regista, ha avuto la buona idea di incoraggiarmi sulla strada insidiosa della matita. Fin da piccino, mi sono dato al vizio inguaribile di disegnare dappertutto, ai margini dei quaderni alle elementari, sui giornaletti di classe alle medie, sempre lasciando sconcertati i compagni perbene».
Qual è la sua massima fonte di ispirazione?
«La pagina 3 del manuale di disegno Cartooning the Head and Figure di Jack Hamm, dove si spiega come tirare fuori emozioni da contorni rudimentali. È quel che ho sempre cercato di fare. La vita d’inferno ci insegue anche se ci mimetizziamo in sagome di conigli. Ma si può rovesciare la frittata e metterla sul suo lato comico. Non sarà un paradiso, ma dati i tempi una bella risata è già una vittoria».