Natalia Aspesi, la Repubblica 14/4/2013, 14 aprile 2013
AGATHA CHRISTIE GRAND TOUR
Anche la Gran Signora del Giallo, l’inimitabile e immortale Agatha Christie, è stata una donna giovane e sottile, innamorata e avventurosa: prima di diventare quel glorioso monumento matronale di ottantenne con cui viene sempre ricordata, una Miss Marple dal gran pettone sotto l’abito stampato, il filo di perle stretto al collo e un cappellino schiacciato sulla testa. In quei primi Anni Venti aveva già inventato, allora con scarso successo, il detective belga dalla testa a forma d’uovo (Poirot a Style Court), quando al marito Archie (il primo) fu chiesto di far parte di una missione governativa nei dominion
dell’Impero britannico, in preparazione dell’Esposizione Universale di Londra, che si sarebbe inaugurata nel 1924. Seguirlo, in un favoloso giro del mondo, o restare a casa vicino alla loro piccina di due anni?
Adecidere fu la saggia signora Clara, mamma di Agatha: «Ricordati che se non stai sempre al fianco di tuo marito, se lo lasci solo troppo a lungo, lo perdi». Lo avrebbe perso comunque, quattro anni dopo, a causa di una più avvenente signora, con grandissimo dolore tanto da scomparire per undici giorni, addirittura, si disse, per far sospettare il marito traditore di uxoricidio.
Il 20 gennaio del 1922 i signori Christie si imbarcarono sul Kildonan Castle, prima tappa a Madera, felici e innamorati; li aspettava una meravigliosa avventura, un viaggio di dieci mesi, a spese del governo e con ogni possibile lusso, in Sudafrica, Australia, Tasmania, Nuova Zelanda, Canada, con l’intermezzo di una vacanza a Honolulu senza impegni diplomatici. La piccola spedizione era diretta dal baffuto maggiore Ernest Albert Belcher, che durante la Prima guerra mondiale aveva avuto il prezioso incarico di Ispettore delle Patate, e che durante tutto il viaggio si rivelò un temibile scocciatore e un inetto presuntuoso, almeno secondo le descrizioni divertite della giovane signora Christie. Nella sua autobiografia, scritta tra il 1950 e il 1965, uscita postuma nel 1977, la signora ormai ricchissima per i milioni di copie vendute di una settantina di romanzi (di cui almeno venti diventati film di successo), ricorda questo viaggio, quando aveva trentadue anni, non era famosa e tutto le sembrava eccitante, persino i servizi igienici in certi angoli sperduti dell’Australia, che «erano fonte d’imbarazzo… le signore venivano educatamente convogliate in una camera dove due vasi da notte spiccavano, unici e soli, sul pavimento, pronti ad essere utilizzati secondo le necessità…».
Adesso il nipote e unico erede di un lascito multimilionario, Mathew Prichard, figlio di Rosalind, l’unica figlia dei Christie, ha curato la pubblicazione di una serie di lettere inedite (frammezzate da brani dell’autobiografia come quello sopra citato), che la scrittrice inviava quasi quotidianamente durante la lunga e forse superflua missione patriottico-commerciale, alla mamma, alla sorella, alla sua bambina.
Agatha Christie, il giro del mondo (Mondadori) non contiene misteri né delitti né detective, ma è il gentile racconto di un’esperienza che, in apparenza straordinaria per quegli anni, si rivela poi faticosa, sudaticcia e raramente esotica: perché dovunque arrivino, anche nel deserto australiano o alle cascate sudafricane, ritrovano l’Inghilterra, sapientemente ricostruita dal colonialismo britannico, gli stessi paesaggi verdeggianti, le stesse case anche stile Tudor, lo stesso cibo, il bridge e il tennis, il tè ad ogni ora, l’orgoglio e la gerarchia dell’Impero, con il governatore, gli ammiragli, gli aiutanti di campo, ministri delle finanze e delle ferrovie e altezze reali, come la principessa di Connaught, «nota in tutto il Sudafrica per essere in grado di dire soltanto “ah sì”». Pomeriggi all’ippodromo, pranzi e cene molto british, visite alle miniere di diamanti, alle segherie, alle distillerie, agli immensi greggi di pecore merinos, alle infinite piantagioni di ananas e di canna da zucchero, un mondo di grandiosa nuova imprenditoria e ricchezza. E poi canguri, coccodrilli, foreste, e molto surf per Agatha, meno per Archie, giovanotto bello e raffinato, portato al broncio, forse già infastidito dalla moglie innamorata. E addirittura qualche indigeno! Servitori soprattutto, ma mai nominati, parte del paesaggio, presenti ma invisibili agli occhi dei bianchi e della macchina fotografica. Solo nella sconfinata fattoria dei Bell, nel Queensland, le indicano come fosse un fenomeno, Susan, un’aborigena, curva e vecchia: «È una nera, una nera vera, di razza pura e fa delle imitazioni fantastiche. Nel suo ambito è una regina tanto quanto la signora Bell…».
Per il popolo tuttora oceanico dei lettori di Assassinio sull’Orient Expresso di Dieci piccoli indiani, risulteranno preziose le fotografie scattate dalla coppia Christie: Agatha in gonnellino da bagno con la tavola da surf, con la lunga gonna e un gran cappello calcato sul viso durante la traversata oceanica, Archie in spiaggia col pigiama a causa dell’ustione da sole hawaiano o nelle papaie con cappello rhodesiano, trenini nella foresta, draghe per l’estrazione dell’oro, lunghe automobili con ruote gigantesche. E tutto un mondo di uomini bianchi, sempre in giacca, gilet, cravatta, ghette e bombetta, come alla City, ma nel pieno del deserto.