Edoardo Nesi, la Repubblica 14/4/2013, 14 aprile 2013
LE CONFESSIONI DI UN DEPUTATO INUTILE
Mentre siedi attonito nell’aula di Montecitorio continui a ripeterti che ci deve essere una lezione da imparare, da qualche parte.
Mentre misuri a grandi passi la lunghezza tennistica di quella meraviglia che è il Transatlantico, mentre la notte romana si dipana e si allunga vuota e non ti fa prender sonno, mentre sfrecci immobile verso Roma a velocità superumana sui treni-pallottola, sai che la lezione da imparare devi sforzarti di riconoscerla, prima, e di accettarla, poi. Ti raccomandi all’umiltà, ti costringi a fare uso della pazienza. Chiami fuori dall’anima queste due amiche che conosci così poco, le vezzeggi, le lustri, le tieni sempre accanto a te. Le eleggi a tue compagne, e diventano le due regine dell’esercito di certezze indimostrabili e invisibili su cui fai affidamento ogni giorno.
Ti sforzi di pensare che sia come un lavoro, quest’impegno politico che pure hai voluto fortemente abbracciare percorrendone ogni gradino, dalla candidatura alla campagna elettorale fino all’elezione; che sia degno e nobilissimo come e quanto il lavoro, ogni lavoro. E continui a dirti che devi averne, e mostrare di averne, il massimo rispetto. Delle sue regole, dei suoi tempi, dei suoi modi e, per quanto possa sembrarti difficile – questo forse si rivelerà impossibile – persino di buona parte di coloro che ti ritrovi ad avere come colleghi.
Ti dici che non può essere così difficile. Dopotutto, non è che uno sforzo intellettuale. Ne hai compiuti tanti, in vita tua. Sai come si fa. Come dicono a Napoli, non sei nato imparato. E torni col pensiero a quando, diciottenne, decidesti di affrontare l’Ulisse di Joyce, o ai giorni poco successivi in cui ti scontrasti con le prime quarantasette pagine di Sotto il vulcano, quelle che l’editore voleva a tutti i costi tagliare e Lowry voleva a tutti i costi tenere. Ti accorgevi di non riuscire a seguire la scrittura di quei due grandi autori, e temevi di aver raggiunto il tuo limite, di non essere nemmeno all’altezza di leggere – lasciamo perdere capire e apprezzare – quelli che il mondo decretava capolavori assoluti. Dubitavi di te e delle tue ambizioni di lettore, e pensavi che sarebbe stata ben sciapa, e triste, una vita senza la gioia di poter amare i grandi romanzi. Non l’accettasti, però, quel verdetto crudele. Ci volle tempo, e impegno, e umiltà, e pazienza, ma alla fine riuscisti a leggere quei capolavori, e forse, anche se a modo tuo, persino a capirli. Come quasi sempre, nella vita, e per tutti, era più una questione di disciplina, che di capacità.
Sono questi i tuoi pensieri sgomenti mentre, come tutte le italiane e tutti gli italiani, vivi nello stallo. Nell’attesa. Nello svolgersi di una serie di giorni vuoti e tutti uguali. Nel bozzolo di una vita sospesa, fatta di tempo rubato a un futuro che bussa alle nostre porte cercando invano di farsi dare ascolto, e prima o poi le schianterà e piomberà addosso a noi e alle nostre figlie e ai nostri figli, e ci prenderà per il bavero.
Se somigli a qualcosa, è un’automobile da corsa in folle, col motore che ruggisce al massimo numero di giri. Da giorni. E cerchi disperatamente, appunto, di disciplinarti. Di non pensare che questa attesa, questo tempo oscenamente perso in attesa di poter fare qualcosa che possa dare un senso al tuo sconsiderato, coraggioso, infantile desiderio di poter essere utile al tuo paese candidandoti e facendoti eleggere in Parlamento, ecco, non sia che una misura – la prima, la più immediata e la più evidente – dell’impossibilità di poter essere in qualche modo utile al tuo paese candidandoti e facendoti eleggere in Parlamento.
Ti dici che non è così. Non può essere così. E aspetti.
L’autore è deputato di Scelta civica