Attilio Bolzoni, la Repubblica 14/4/2013, 14 aprile 2013
LA “DOLCE MORTE” DEL PM INDAGATO E POI PROSCIOLTO
IL SEGRETO più grande l’ha tenuto per sé sino alla fine, non l’ha confidato a nessuno. Alla moglie, al fratello, al cugino che è stato l’amico di una vita. È partito dalla Calabria da solo, in auto, per raggiungere millecinquecento chilometri dopo una di quelle cliniche della «dolce morte» in Svizzera. In silenzio. Tutti, in famiglia, dicono ora che stava bene e che non era malato.
EHANNO scoperto che non c’era più da una telefonata. Giovedì sera 11 aprile, ore 18,30. Squilla il telefono in una casa di Piscopio, frazione di Vibo Valentia. Una voce femminile, la donna si presenta come un medico di Basilea. «Il signor Guido D’Amico?». «Sì, sono io». «Rispettando la volontà di suo fratello Pietro questa mattina abbiamo eseguito un suicidio assistito, suo fratello ci ha anche comunicato che avremmo dovuto avvertire subito dopo lei». Fine della telefonata e fine o inizio di un’incredibile storia che ha come protagonista-vittima un giudice italiano che ha deciso di andarsene in una «struttura sanitaria » nelle campagne svizzere. Si chiamava Pietro D’Amico, aveva 62 anni, da tre aveva lasciato la magistratura con queste parole: «Voi non mi meritate».
Era «in sofferenza» dal 2007, quando da sostituto procuratore generale di Catanzaro fu sfiorato — e indagato — in un’inchiesta dell’allora pm Luigi De Magistris, l’attuale sindaco di Napoli, per una presunta fuga di notizie — rivelatasi poi inesistente
— in favore dell’avvocato- deputato Giancarlo Pitelli. Prosciolto in brevissimo tempo e risarcito con 15mila euro, Pietro D’Amico non aveva più voluto avere rapporti con i Palazzi di Giustizia italiani. Dedicandosi alla lettura e alla scrittura di testi giuridici. Filosofia del diritto, diritto privato, storia della filosofia. Fra qualche giorno avrebbe dovuto consegnare alla casa editrice Rubettino un testo sul diritto anglosassone, aveva appena finito di correggere le bozze.
Era molto depresso, per certi periodi spariva da tutto e da tutti anche se i suoi parenti oggi sostengono che «a parte un diabete che teneva sotto controllo, Pietro stava benissimo».
Sua moglie Tina, una maestra elementare sposata qualche anno fa ma che è stata la compagna di un’intera esistenza, non immaginava nulla di ciò che aveva in mente suo marito. «Adesso aspetta una lettera, un messaggio dove ci sia scritto qualcosa, un perché», racconta Pietro Giamborino, il cuginoamico che fino a quattro giorni fa era sceso con lui verso Cittanova per andare a mangiare lo stoccafisso in una trattoria dove Pietro voleva ritornare ogni volta. Ricorda il cugino, noto in Calabria perché consigliere restato gionale nel partito di Rutelli: «Ogni tanto si assentava, è vero, ma tutto sommato faceva una vita normalissima, questa sua morte ci sconvolge. Sicuramente non aveva un tumore, abbiamo pensato pure che abbia falsificato la documentazione da portare su a Basilea. In famiglia abbiamo pensato anche a questo». E aggiunge: «Adesso vogliamo capire — abbiamo già avvertito i nostri avvocati — come si è sviluppata la procedura che ha portato al suicidio assistito e soprattutto se sia stato corretto che nessuno ci abbia avvertiti della sua volontà».
La dottoressa di Basilea, quella che ha comunicato al fratello Guido «l’eseguito suicidio assistito», gli ha spiegato anche che «già altre due volte» l’ex magistrato di Vibo Valentia era in Svizzera per prendere contatti con la clinica della dolce morte. Non ne sapevano niente i parenti. Non sospettavano niente. Anche se ogni tanto lui parlava dell’eutanasia, così, per caso. È sempre suo cugino che racconta: «In occasione di un recente viaggio a Taormina era tornato sul discorso, mi parlava del rispetto che merita qualsiasi persona che decide, per qualsiasi motivo, di porre fine alla sua esistenza. Tutti collegavamo i discorsi che faceva alla sua leggera depressione, ma mai avremmo potuto credere a ciò che aveva progettato».
I familiari escludono che avesse una qualche patologia oncologica, gli amici — fra i quali alcuni vecchi magistrati — dicono che, incontrandolo sempre più raramente negli ultimi tempi, lui rispondeva sempre: «Tanto, fra un po’ me ne vado ».
Abitava con Tina in una casetta alla periferia di Vibo, non avevano figli. Si era rinchiuso lì da quando aveva preso la decisione di andarsene dalla magistratura, a 58 anni. Si era laureato all’Università di Urbino quando ne aveva 22, il concorso per diventare giudice l’aveva vinto due anni dopo. Primo incarico magistrato di sorveglianza al Tribunale di Varese, poi pretore al Tribunale di Paola, dal 1985 al 1987 al Ministero di Grazia e Giustizia, poi ancora magistrato di sorveglianza a Reggio Calabria, giudice e sostituto procuratore generale a Catanzaro.
Lì, la tempesta con le «vaporose » indagini del sostituto procuratore Luigi De Magistris. Il numero di telefono di D’Amico finito nei tabulati di Giaocchino Genchi (il consulente palermitano informatico del magistrato inquirente), i sospetti, l’inchiesta, l’archiviazione. «Da quel momento non è stato più lo stesso», spiega il cugino Pietro.
Chiuso sempre a scrivere. Una produzione abbondante: “Crisi della giustizia tra positivismo ed empirismo giuridico”, “Elementi di diritto privato romano comparato col moderno”, “Evoluzione del pensiero giuridico nella storia della filosofia”, “Storia della filosofia del diritto”, “Il delitto Rodinò”, “Preghiere ebraiche”, “Ebraismo, cristianesimo e islamismo”.
Fino all’ultima stesura, il libro sul diritto anglosassone. Fino a Basilea, dove l’hanno aiutato a morire.