Natalia Aspesi, la Repubblica 16/4/2013, 16 aprile 2013
VERDI A GOMORRA
MILANO
Dei teatri d’opera di tutto il mondo, travolti dalla valanga verdiana causa bicentenario, la Scala, come è sua tradizione, è stata la più temeraria. Ha infatti rispolverato dai suoi preziosi archivi questo
Oberto Conte di Bonifacio,
prima opera del giovane sconosciuto Giuseppe Verdi, data in prima assoluta proprio nel teatro milanese il 17 novembre 1839. Il sovrintendente Lissner, spesso accusato di wagnerismo antiverdiano, ne è entusiasta: «Prima ancora della musica, mi ha colpito il libretto, che per la sua drammaturgia senza tempo, mi ha fatto pensare a una storia contemporanea ». Verdi si rivolterebbe nella tomba: lui ripudiò la sua prima opera dopo un paio d’anni e non volle che fosse più rappresentata. Passarono 112 anni prima che la Scala, nel 1951, osasse rimetterla in scena, da allora un salto di altri 51 anni, e nel 2002 l’hanno data all’Arcimboldi con i giovani dell’Accademia scaligera.
Oggi l’Obertoè quindi un’opera semisconosciuta, ed è la dispettosa curiosità del sovrintendente a resuscitarla, in questa stagione, tra cinque capolavori verdiani. Certo era necessario ringiovanirla un po’, toglierla dal cenotafio musicale, ridarle la meritata dignità, e infatti, Lissner ha subito scelto come regista Mario Martone, «un intellettuale di grande umanità, di cui ho molto rispetto, e che ho già prenotato per il 2017 all’opera di Parigi». Un grattacapo per il geniale Martone, che in questo momento sta preparando il suo film su Leopardi, e si è trovato tra le mani una storia duecentesca, ambientata nel castello del terribilissimo tiranno della Marca Trevigiana Ezzelino da Romano, già sistemato da Dante nel XII canto dell’Inferno. Martone era confuso: «Immaginare ancora cavalieri con corazze e cavalli tutti bardati e pallide dame come negli affreschi d’epoca, oppure scegliere il Risorgimento, con garibaldini, anarchici e terroristi, che ho raccontato nel mio film Noi credevamo?
Nel libretto ma anche nella musica, c’è una vena di cieca di efferatezza, ci sono guerre per bande, odi tra famiglie, questioni d’onore, sopraffazione del maschile sul
femminile: un retaggio italiano che non si è mai estinto, dal medioevo a oggi. Quindi ho pensato al film di Garrone, Gomorra, alle fotografie di camorristi di Mario Spada, e alle guerre sanguinose tra cosche, con una vincente, quella di Riccardo che si è alleato con Ezzelino, e quella perdente, con a capo Oberto». Poi naturalmente il melodramma incombe: la sorella di Ezzelino, Cunizza, è una creatura buonissima (non per niente tra gli spiriti amanti del IX canto del
Paradiso), ed è promessa sposa, per ragioni politiche, di Riccardo, ma quando sa che costui ha disonorato Leonora figlia di Oberto, che fa? Contrariamente a quanto succede di solito nell’opera, dove le donne sono rivali, si allea con la tapina contro il seduttore mafioso Riccardo, mentre il capoclan Oberto viene fatto fuori tra sicari armati di mitraglia.
La scena è occupata dall’interno di una villa di fastosa volgarità tutta oro, broccato cremisi e scaloni curvi di marmo, «che mi è stata ispirata da quella, enorme e pacchiana di Walter Schiavone, boss di Casal di Principe, che a sua volta l’aveva copiata da quella del film
Scarface di De Palma: l’orribile palazzina è stata poi distrutta dagli stessi uomini di Schiavone, dopo la confisca e la condanna all’ergastolo». Certo è difficile attribuire all’Oberto in cappotto cammello e coltello a serramanico (Michele Pertusi), al Riccardo stravaccato sul divano in giacca di broccato d’oro (Fabio Sartori, tenore di stazza pavarottiana) e a Cuniza ed Eleonora (Sonia Ganassi e Maria Agresta, in vestaglia di pizzo d’oro su camicia da notte nera la prima, in pelle nera e minigonna la seconda) tutti di eccelsa bravura, le parole del libretto di Temistocle Solera, tipo: Riccardo: «Già parmi udir il fremito degli invalidi nemici, le balde lor cervici, prostrate al suol vedrò». Oberto: «L’orror del tradimento chiede dell’empio il sangue». «Ma la musica anche se piena di echi del passato, è già puro melodramma verdiano, segnata dalla forza originale delle sue opere future. E mi ha entusiasmato anche che già in questa sua prima opera Verdi fosse riuscito ad esprimere la realtà profonda, tragica e immutabile del nostro paese».
Il compositore aveva 26 anni e stava vivendo una sua personale tragedia, al di là del momento storico, in una Milano austro-ungarica già inquieta: la morte nell’agosto precedente della primogenita Virginia, del piccolo Icilio a un mese dalla prima dell’Oberto, mentre avrebbe perso la giovane moglie Ghita pochi mesi dopo. «Tutto questo dolore si sente nell’opera, soprattutto nel rapporto tra padre e figlia, ma anche nella solidarietà tra le due donne». Con momenti di baci e abbracci un po’
lesbien.
«Siamo poi stati molto fortunati: questa è la prima volta in assoluto che viene proposto un duetto tra le due cantanti, mai andato in scena neppure nel 1839, e che ho ritrovato per puro caso. Con il direttore d’orchestra Riccardo Frizza, abbiamo deciso di osare e ne siamo orgogliosi».