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 2013  aprile 16 Martedì calendario

IN QUEL FEROCE VIVEUR C’ERA CIASCUNO DI NOI

Pietro Maso ha la mia età, la nostra età. L’età di una generazione il cui apprendistato alla vita è stato un apprendistato all’irrealtà. La più sfrenata.

Nati, come lui, a cavallo tra ’60 e ’70, come lui avviatici all’età adulta negli anni ’80 delle tv simulacralcommerciali, abbiamo poi avuto un’economia che passava di bolla speculativa in bolla speculativa, un’educazione sentimentale basata sulla pornografia di massa, una politica ridotta a comunicazione pubblicitaria, una Nazione divaricata tra Paese reale e Paese mediatico.

Il 17 aprile del 1991, nella sua casa di Montecchia di Crosara, provincia di Verona, aiutato da tre amici, servendosi di un tubo di ferro e di un bloccasterzo, a sangue freddo e in un corpo a corpo, nel corso di un aggressione durata ben 53 minuti, Pietro Maso massacrò sua madre e suo padre. Da ieri Pietro Maso è un uomo libero, domani ricorrerà il ventitreesimo anniversario del suo delitto, oggi viene pubblicata la sua autobiografia.

Abiezione, espiazione, confessione. Questa, nell’ipotesi migliore, la parabola morale suggerita dall’agghiacciante cronologia. Autoaffermazione violenta, detenzione, autocelebrazione promozionale. Questa l’ipotesi peggiore. In linea, purtroppo, con la perizia di «ipertrofia narcisistica» formulata da Vittorino Andreoli all’epoca del processo («Padre e madre percepiti solo come un salvadanaio da cui prelevare quando serviva, e da rompere se il bisogno lo richiedeva» scrisse allora lo psichiatra). Una perizia che poteva valere, in senso lato, per un’intera generazione o, comunque, per una sua parte, la parte maledetta che dimora in ciascuno di noi.

Personalmente depreco la tendenza a elevare il fattaccio di cronaca nera al rango di universale tragico, a fare dell’assassino un’icona, fosse anche icona del male (è ciò che tenta l’editore proclamando fin dal titolo «Il Male ero Io»). Non lo seguiremo, perciò, nell’inferno esclusivo dei famosi a ogni costo. Non posso dimenticare però che la notizia del delitto raggiunse me e i miei coetanei di allora passando di bocca in bocca, sospinta dal bisbiglio eccitato e sgomento con il quale si divulga il segreto vergognoso o la sciagura abbattutasi su un conoscente. Ero cresciuto e abitavo a Venezia, capitale periferica di quel Nord-Est improvvisamente, selvaggiamente arricchitosi in cui il delitto era maturato e, dunque, non posso dimenticare i sabato sera al «Muretto» (una discoteca di Jesolo) in blazer blu, camicia bianca e foulard a pois, la stessa tenuta spudorata poi sfoggiata dall’assassino in aula durante il processo. E non posso dimenticare che i più fortunati tra noi – allora si ritenevano tali – guidavano quella BMW bianca con gli interni bianchi e i sedili in pelle per ottenere la quale Pietro Maso aveva assassinato i genitori. Durante tutti gli Anni 80, un ceto di pubblicitari, avviando il ciclo millenario dello sradicamento di massa, aveva asfaltato la strada lungo la quale guidavano, o sognavamo di guidare, quell’auto di lusso. Nel volgere di un decennio, si erano inghiottiti, in un solo boccone, la scuola, la chiesa, la famiglia.

Ieri fu, di certo, la lotta; domani sarà, forse, di nuovo la lotta; ma ora è il tempo della dolce vita universale. Questo ci ripetevamo noi ventenni fin de siècle mentre sorbivamo in un’interminabile ora degli aperitivi l’ennesimo spritz. Ora il mondo si offriva al feroce viveur che era, senza eccezione, ciascuno di noi. «Mi chiedo se proprio quei figli che noi siamo tentati di definire come mostri non siano invece i figli più logici, più sinceri, più coerenti al sistema di cui noi stessi siamo attori e protagonisti (…) Se questa massa scatenata di gioventù fosse, per caso, coerente fino in fondo, fedelissima ad accogliere fino in fondo la sostanza del nostro “magistero”, questo nero vangelo che annunciamo, non so quali “padri” potranno salvarsi dall’assassinio collettivo». Lo scrisse allora David Maria Turoldo pronunciando parole di verità.

Il nodo tragico di tutta questa vicenda si stringe, infatti, proprio in questo punto: quello dell’eredità (come intuì subito Gianfranco Bettin). Maso uccise i genitori per ottenere anzitempo la modesta eredità, senza alcun altro movente né alcun’altra implicazione a complicare quel movente. E proprio per questo il suo atto efferato parve scavare una sorta di abisso antropologico tra giovani e adulti, stabilendo che nessuna trasmissione ereditaria tra la vecchia e la nuova generazione era più possibile, che il mondo lasciato dai genitori ai figli non poteva più essere ereditato da loro. D’improvviso, la distanza tra le generazioni fu percepita drammaticamente ma senza nessuna linea di demarcazione ideologica né rivendicazione politica a separarle. Cessataogni dialettica, ogni autentico conflitto, i figli volevano, molto semplicemente, gli «schei» dei padri. E li volevano perché i padri non erano riusciti a trasmetter loro nessun altro valore che non fosse quello dei loro «schei». Per quanti sforzi potesse aver fatto quella coppia di contadini veneti, faticatori e devoti, invecchiati in un paesaggio devastato dai capannoni della fabbrica diffusa, al rientro a casa da una riunione di neo-catecumenali, il loro figliolo, acquattato nell’ombra, gli avrebbe teso un agguato mortale. La loro ambizione a procurargli una vita migliore della propria sfocerà in niente di meglio o di diverso da quell’edonismo assassino.