VARIE 15/4/2013, 15 aprile 2013
Pietro Maso è tornato libero. E’ uscito dal carcere di Opera a bordo di un suv bianco guidato da un uomo
Pietro Maso è tornato libero. E’ uscito dal carcere di Opera a bordo di un suv bianco guidato da un uomo. Sono venutI a prenderlo le due sorelle e un uomo. Per l’omicidio del padre e della madre, Antonio Maso e Rosa Tessari, rispettivamente di 52 e 48 anni, compiuto il 17 aprile 1991 a Montecchia di Crosara (Verona) con la complicità di tre amici, si era visto infliggere nel 1994 in Cassazione 30 anni e due mesi di reclusione. A questo carico sono stati sottratti i tre anni di indulto e 1.800 giorni di liberazione anticipata. Così il suo conto con la giustizia si è chiuso dopo 22 anni (meno quattro giorni) di carcere. Dopo la condanna in Cassazione, Maso scrisse una prima lettera di pentimento. Poi i lunghi anni della detenzione, ma con le cronache sempre attente a cosa succedeva a Maso. Nel 2008 si sposò e in quell’anno fra le polemiche ottenne anche la semilibertà, che gli consentì di lavorare di giorno fuori dal carcere. Beneficio che rischiò di perdere nell’aprile 2011, per una frase, "io ti ammazzo", nei confronti di un uomo a cui aveva prestato del denaro. Una frase che però ha sempre negato di aver pronunciato. Il tribunale di sorveglianza gli confermò la semilibertà, ma un anno dopo il giudice di sorveglianza bocciò la sua richiesta di uscire dal carcere commutando la pena in detenzione domiciliare. Ora il conto con la giustizia è saldato. A Montecchia, dove la villetta dell’orrore è stata venduta da tempo, nessuno lo aspetta. "Non è più nostro cittadino - dice il sindaco, Edoardo Pallaro - Il paese ha voltato pagina. In tutti i sensi". Con la sua definitiva scarcerazione e il ritorno alla libertà, Pietro Maso non lavorerà più negli uffici del Provveditorato regionale delle Carceri, dove faceva le pulizie, in quanto il contratto è decaduto automaticamente. COMMENTO DI CARLO VERDELLI La vera condanna di Pietro Maso è la fama. Sono passati 22 anni da quando sprangò a morte, insieme a tre amici, la madre e il padre. C’era ancora la lira, non esisteva Internet, si era da poco insediato il settimo e ultimo governo Andreotti. Un’altra Italia, un altro mondo. Eppure, quando tra pochi giorni, il 15 aprile, lascerà per sempre il carcere, ad attenderlo ci sarà la folla di telecamere e fotografi che di solito si raduna per i "famosi". E sarà solo l’inizio. Per esempio, lo aspetta già un libro, "Il male ero io", edito niente meno che da Mondadori, firmato da lui, anche se a comporlo e scriverlo è stata la giornalista di Mediaset Raffaella Regoli. Data prevista per il lancio: il 16 aprile, a cavallo tra il 15, fine della pena, e il 17, anniversario della mattanza. Ma potrebbe non finire qui, il Maso parte seconda. Pare che Alfonso Signorini, direttore di "Chi", già lo volesse in un programma natalizio su Canale 5. Tema surreale della puntata: l’amore per i genitori, con Maso che avrebbe dovuto spiegare, al termine del suo travagliato percorso di conversione e pentimento, quanto siano importanti per la vita di un figlio. Tutto saltato per un provvidenziale no del giudice. Pazienza, ci saranno altre occasioni. Perché, a suo modo, Pietro Maso è una star. Figura, ancora per qualche giorno, tra gli ospiti di spicco della severa galera di Opera, insieme a Riina, Vallanzasca, Sandokan e qualche bestia di Satana. Durante un permesso, è stato ritratto in amichevole conversazione con Fabrizio Corona, e "Novella 2000" gli ha dedicato pagine su pagine. Anche Lapo Elkann si è interessato a lui, forse per via della "seconda possibilità". Il problema di Pietro Maso è che l’abisso in cui si è ficcato, deliberatamente, è di quelli che passano alla storia, non solo criminale. E la notizia della sua imminente e definitiva scarcerazione ha sollevato dichiarazioni pubbliche violente e uno sgomento diffuso. Ma come, con quello che ha fatto, non gli hanno dato l’ergastolo? "L’altra mattina mio figlio di 12 anni mi ha chiesto proprio questo: mamma, ma per te è giusto che Maso esce?". La mamma in questione è Roberta Cossìa, il giudice del Tribunale di sorveglianza di Milano che ha firmato il fine pena. La condanna era di 30 anni e 2 mesi, spiegabile con l’età dell’omicida, che allora aveva appena 19 anni e 9 mesi. Sarebbe dovuto restare detenuto fino al 2021, ma tra i 3 anni di indulto e i 45 giorni maturati ogni sei mesi per buona condotta (fanno altri 5 anni), la scadenza è stata anticipata. Nessun favoritismo. È la legge. I protagonisti dei delitti familiari più angosciosi di cui abbiamo memoria sono tutti liberi. Lo è Doretta Graneris, la "belva di Vercelli", che nel 1975, a 18 anni, insieme al futuro sposo, uccise a colpi di pistola madre, padre, nonni materni e il fratello di 13 anni, più il cane che abbaiava. Lo sono Erika e Omar, i due diciassettenni che nel 2001, a Novi Ligure, squartarono con 97 coltellate la madre di lei più il fratello di 11 anni. È libero anche Ferdinando Carretta, che nel 1989 a Parma sparò ai genitori e al fratello, e poi scomparve per 9 anni. Liberi per legge. Ma, appunto, è giusto? "A mio figlio ho risposto che sì, lo è. Quando il castigo è stato espiato, ognuno ha diritto a una nuova vita. Semmai, c’è da augurarsi che non la sprechi". E secondo lei, signor giudice, il Maso di 42 anni che sta per tornare libero cittadino saprà non sprecarla? "La cosa più saggia sarebbe quella di ripartire altrove, che so, un bar a Santo Domingo. Diventare uno qualunque. Il rischio, invece, è quello di fare del proprio male un business, ovvero un’altra prigione". Il male che ha trasformato il ragazzino Piero in Pietro Maso è grande e terribile. Atroce e solo in parte spiegabile. Anche da lui stesso: "L’ho fatto per i soldi, i vestiti, i profumi". L’ha fatto per comprarsi una Bmw bianca con gli interni bianchi e i sedili in pelle, 47 milioni di lire di allora. L’ha fatto perché quel Nord-Est dove cresceva era la locomotiva d’Italia, il denaro era la misura della realizzazione di se stessi, più ne hai più vali. Ma quanto denaro c’era realmente in ballo nell’eredità di famiglia? Non tanto, non abbastanza per passare dalla vita alla bella vita. Il padre Antonio era un contadino, come tanti a Montecchìa di Crosara, 35 chilometri da Verona, 4 mila abitanti, vigneti che danno il Soave e ciliegi che in primavera riempiono la campagna di fiori bianchi. La madre Maria Rosa cresceva i tre figli, Pietro più due sorelle maggiori, e badava alla casa, una villetta su due piani, grigia, semplice, modesta, con un balconcino che dà su una strada stretta (per tragica ironia, via San Pietro) e alle spalle, più sopra, il cimitero. Tra campi e risparmi, i signori Maso possedevano beni per neanche un miliardo e mezzo di vecchie lire. Posto che fossero deceduti, l’eredità sarebbe finita divisa tra i tre figli, mezzo miliardo a testa. Se a questo si toglie il compenso pattuito per i complici del doppio assassinio, il ragazzo Piero avrebbe intascato, in cambio di una discesa senza ritorno agli inferi, 400 milioni o giù di lì, 200 mila euro. Sarebbe stato molto più conveniente, e meno devastante, darsi alle rapine. Perché allora quella strage, e perché così selvaggia? Al camposanto di Montecchìa, quel che resta dei signori Maso è custodito sotto un monumento matrimoniale, in una seconda fila anonima, tomba tra le tombe, una scritta dolentemente standard ("i vostri cari"), qualche fiore finto e una piantina di sempreverdi. Antonio, 56 anni. Maria Rosa, 48. La foto li ritrae vicini e sorridenti. Due brave persone qualunque. La notte del 17 aprile 1991, un mercoledì, alle 23 e 30, rientrando a casa dopo una riunione in parrocchia, smetteranno di esserlo. Il loro Pietro era un figlio normale, si dice sempre così. Chierichetto da bambino, un anno in seminario, tre anni di istituto agrario che poi molla per i primi lavoretti. È bello, piace e si piace. Mamma Rosa gli confeziona vestiti alla moda, tra cui una giacca rossa doppiopetto con due file di bottoni, con stoffe che sceglievano insieme. Nei bar, nelle discoteche della zona, ai primi tavoli da gioco, fa carriera in fretta. Gioventù bruciante, con lui capobranco emergente. "Uno a quell’età assorbe l’aria che si respira in giro", dice il sindaco di Montecchìa, Edoardo Pallaro, titolare dell’unica farmacia del paese (tre le banche). "E allora giravano quattrini a go-gò, si respirava un deserto sentimentale alimentato dal consumismo. Adesso è diverso, la crisi si sente anche qui". Lei ha detto che Maso non è più cittadino di Montecchìa. "E’ una cosa tecnica. Chi è in carcere prende la residenza di dove sta". Si avverte però del rancore nelle sue parole. "Conoscevo i suoi genitori, gente a postissimo. E poi la storia dello sconto di pena è un po’ come le sanatorie fiscali: è un’ingiustizia verso chi si è comportato bene tutta la vita. Comunque non escludo che Pietro Maso torni, nessuno di quella tragedia abita più qui". Non i tre complici, Giorgio Carbognin, Paolo Cavazza e Damiano Burato (all’epoca, minorenne); tutti già fuori ma tutti lontani. Non le due sorelle rimaste orfane in quel modo, Nadia e Laura: sposate, con figli, sono riuscite nell’impresa difficile di ridarsi un fuguro e in quella, quasi impossibile, di perdonare il fratello. C’è ancora la villetta Maso, ma è stata venduta a uno di fuori, che l’affitta a rotazione. L’unica traccia rimasta intatta è il supermercato A&O, sull’altro lato del marciapiede. Lì, a 50 metri da casa, Pietro ha lavorato tre anni. Cassa numero tre. "Era un tipo vivace, molto brillante, molto per bene", lo ricorda il direttore Agostino Righetto. "Pensi che avevamo deciso di abolire il libretto, dove uno segnava il conto e poi magari pagava a fine mese. Ecco, capitava che delle clienti non avessero i soldi per la spesa di quel giorno, e più di una volta ce li metteva lui. Cinque, diecimila lire, poca roba, ma aveva quella bontà lì". E i rapporti con i genitori? "La mamma si scioglieva per quel figlio, avrebbe fatto lei i suoi turni di pulizia delle vetrate. Forse gli stava un po’ tanto addosso... Comunque, negli ultimi mesi lui era più inquieto. A Natale mi ha detto che si licenziava, voleva nuove esperienze". E le fa, le nuove esperienze. Tenta una prima volta la strage di tutta la famiglia, sorelle comprese, con delle bombole a gas nella tavernetta. Qualcosa va storto e allora ci riprova con piani separati: lo sterzo manomesso della macchina del padre, la madre da eliminare mentre lui la porta da qualche parte in auto, col fido Carbognin seduto dietro con una bistecchiera (che però, all’ultimo, non ce la fa a usare). Fino alla notte del 17 aprile, quando Antonio e Rosa rientrano dalla parrocchia e trovano ad aspettarli tre ragazzi con delle maschere da carnevale con capelli posticci e loro figlio Pietro a volto scoperto. È il primo a picchiare: suo padre, in testa, con un tubo di ferro da 50 centimetri. E sarà ancora lui a dare il colpo di grazia alla madre, dopo 53 minuti di strazio e di orrore. Cinquantatré minuti: il tempo medio che un italiano passa su Facebook al giorno, la durata dell’intera Sinfonia n.4 di Gustav Mahler. Nessuno dei carnefici è drogato né ubriaco. Alla fine dell’esecuzione, vanno in una discoteca, il Berfi’s, ma non riescono a entrare perché è prenotata per una festa. Quando gli investigatori perquisiranno la stanza di Maso, troveranno decine di abiti firmati e 50 profumi diversi. Ai primi processi, l’assassino si presenterà in blazer blu, camicia bianca aperta e un foulard scuro a pois bianchi portato con strafottenza. Come a sfidare la giuria e la coscienza, come se quel bagno di sangue non lo riguardasse. Non per estraneità al fatto, visto che confesserà dopo neanche due giorni. Piuttosto, come ulteriore oltraggio, con quegli occhi freddi e beffardi che gli valgono subito centinaia di lettere di fan e ammiratrici. L’assassino che diventa eroe, il simbolo della rivolta contro il potere dei genitori padroni. "Ipertrofia narcisistica", decreterà la perizia psichiatrica di Vittorino Andreoli. "Padre e madre percepiti solo come un salvadanaio da cui prelevare quando serviva, e da rompere se il bisogno lo richiedeva". L’eredità, appunto. I soldi subito, d’accordo. Ma non può bastare. E infatti non basta a spiegare come si possa sopportare, per 53 infiniti minuti, la vista e l’esperienza della mutilazione e del massacro di tua madre, quella che ti faceva ciao con la mano dal balcone quando andavi al supermercato, o di tuo padre che, per quanto taciturno, aveva provato con la sua dedizione ai campi a spiegarti il valore della terra, e dei suoi frutti, e dei fiori. Negli anni in prigione, poco alla volta, viene a galla una verità complementare. Emerge come un iceberg imprevisto un odio tremendo verso la famiglia, l’unico detonatore che renda minimamente comprensibile la notte del diavolo. Una relazione disastrosa con le sorelle, vissute come assenti; col padre, percepito come un estraneo, capace di fargli una battuta velenosa quando lo sorprende in un bar frequentato da gay; e con la madre, perennemente insoddisfatta di lui, del suo rendimento a scuola, la pecora nera che non si riesce a sbiancare. Poco importa che questi sentimenti di Pietro Maso corrispondano alla realtà. Ma sono la molla che lo spinge oltre il confine del male. E in quell’altrove lo lascia, per ventidue anni, in una cella. Ventidue anni: un diploma in ragioneria, il poster del Milan alla parete, tanta palestra ("sta in fissa per il fisico", dicono da dentro), una parte in un Jesus Christ Superstar per detenuti dove faceva l’angelo, un rosario al collo simbolo di una conversione guidata da don Guido Todeschini, quello di Telepace, il prete che il 10 ottobre 2010 lo unisce in matrimonio religioso con Stefania, ragazza milanese conosciuta durante un permesso: aveva un negozio di abiti di marca, ora si è spostata nel ramo tatuaggi. Questa la superficie. Ma sotto? Quanto e come è cambiato lo sguardo di Maso su se stesso e sul mondo? Don Marcellino Brivio, parroco al Gratosoglio, è stato a lungo il cappellano di Opera. È uno dei "pretacci" raccontati nel libro di Candido Cannavò: "Pietro l’ho visto tanto, veniva quasi sempre alla messa, ma ci siamo parlati poco. È uno che dentro ha rigato dritto, gli agenti e gli altri detenuti si sono comportati con lui come se fossero tutti dentro uno spettacolo. Non so se quel ragazzo ha incontrato fino in fondo il suo demonio. Quello che spero è che, uscendo, si lasci alle spalle Pietro Maso e ridiventi Pietro". Un bar a Santo Domingo, per dire, oppure la compagnia del Gatto e la Volpe. A lei la scelta, cittadino Maso. (28 marzo 2013) CORRIERE.IT E’ un uomo libero. La prima giornata ha scelto di passarla in casa della moglie Stefania, a Milano, in viale Regina Giovanna. Pietro Maso, dopo aver scontato 22 anni di pena per l’omicidio dei genitori - avvenuto il 17 aprile del 1991 a Montecchia di Crosara, in provincia di Verona - è uscito lunedì mattina dal carcere di Opera, a bordo di un suv bianco. E’ venuta a prenderlo la sorella Laura, accompagnata da un’altra donna (forse la sorella Nadia) e da un uomo. Il ragazzo che massacrò i genitori, oggi 41enne, è «un cittadino come tutti gli altri e così dovrà essere considerato»: così ha spiegato Roberta Cossia, il magistrato di sorveglianza che ha firmato il fine pena. Maso è stato condannato a 30 anni di reclusione, ma grazie a tre anni di indulto e 1800 giorni di liberazione anticipata è uscito dal carcere. Nel 2008 ha ottenuto la semilibertà e si è sposato con Stefania. Pietro Maso torna in libertà Pietro Maso torna in libertà Pietro Maso torna in libertà Pietro Maso torna in libertà Pietro Maso torna in libertà Pietro Maso torna in libertà Mi piace questo contenutoNon mi piace questo contenuto A 0 persone piace questo contenutoA 0 persone non piace questo contenuto Invia contenuto via mail Link: ALL’USCITA - Appena uscito dal carcere, Pietro Maso ha abbracciato la sorella e poi è salito sul suv bianco per andarsene, cercando di sfuggire ai flash dei fotografi e alle riprese delle tv senza dire una parola, nemmeno da dietro i finestrini dell’auto, dai quali però si intravedeva il volto con un leggero sorriso. Maso, in abiti sportivi, è uscito dall’istituto di pena alle porte di Milano poco dopo le dieci di lunedì. Per evitare cronisti, fotografi e operatori tv ha adottato lo stratagemma di farsi venire a prendere in auto, auto che è in sostanza fuggita, anche grazie a un uomo che ha urlato di andarsene il prima possibile, quando i rappresentanti della stampa hanno tentato di avvicinarsi per «rubare» un’immagine. Da quanto si è saputo, prima di lasciare definitivamente la casa di reclusione Maso ha salutato gli operatori ringraziandoli. LA SORELLA - «Mi spiace, non faccio commenti, non rilascio interviste, dovete lasciarci in pace». Così al telefono ha risposto dalla sua casa di San Bonifacio (Verona) Nadia Maso, dopo il rientro a casa. La donna non ha voluto nemmeno confermare se era presente con la sorella Laura ad attendere il fratello fuori dal carcere di Opera. Pietro Maso in un’immagine del 1993, ripresa durante il processo a Mestre. Pietro Maso in un’immagine del 1993, ripresa durante il processo a Mestre. «IL MALE ERO IO» - Martedì uscirà il libro di Pietro Maso «Il male ero io» in cui racconta di come ha massacrato, con la complicità di due amici, i genitori Antonio e Mariarosa per impossessarsi della loro eredità. «Sono in piedi accanto ai loro corpi. Morti. Una linfa gelata mi è entrata dentro, nelle vene, nelle ossa, nel cervello». E il racconto dell’assassinio: «Vado in bagno. Devo lavarmi. Apro a manetta l’acqua calda, tengo la testa bassa. Fisso le macchie sul dorso delle mani. E’ sangue. E’ il sangue di mio padre. E’ il sangue di mia madre. Ci è schizzato sopra, sulle dita». Per il giovane veronese l’impatto con il carcere, dopo una giovinezza vissuta tra amici, begli abiti e discoteche, è un autentico choc. «Chi avrebbe potuto immaginare quello che sarebbe accaduto - spiega - l’omicidio, il carcere. Di lì a poco non avrei avuto neppure un paio di slip per cambiarmi. Per anni ho avuto addosso solo i vestiti unti e consumati che qualche detenuto mi lasciava per pietà».