Roberto Saviano, la Repubblica 15/4/2013, 15 aprile 2013
PROCESSO A NAPOLI
Sette anni sono un tempo lungo, troppo lungo. Un tempo infinito di assenza dalla città in cui sei nato e hai vissuto gli anni più importanti della tua vita, della tua formazione. È da sette anni che non calpesto il basalto dei vicoli di Napoli, di cui conoscevo a memoria tutto: le macchie di umidità sui palazzi, le vetrine delle botteghe, i pacchi di pasta e i barattoli di conserve impolverati. I
piennoli di pomodorini che i turisti credono decorativi, ma fanno il sugo più buono della domenica. Tutto per me era casa. Negli ultimi anni, invece, di Napoli ho visto solo il Palazzo di Giustizia, che sembra un corpo estraneo nella città più luminosa che io abbia mai visto. Di quella luce che ferisce gli occhi, le fredde aule del Tribunale con le vetrate che sembrano mai lavate conservano ben poco. Negli ultimi anni sono stato ovunque, mai a Napoli. Ecco perché ora, alla vigilia del mio ritorno, sono emozionato, nervoso, impaziente. Perché torno dove tutto è cominciato. Sento di chiudere finalmente il cerchio.
Cosa mi aspetto? Francamente non lo so. A Napoli ho ancora molti amici che sentono il peso di dovermi difendere da una città che non mi ama.
«Speculatore». «Ti sei arricchito sulle disgrazie della tua città». «Furbo, furbetto, furbone». «Hai detto il noto, hai venduto l’invenzione dell’acqua calda». «Ti sei appropriato del lavoro di tutti noi». «Scampiamoci da te». Queste le accuse che mi sono state rivolte. Che ho percepito negli sguardi, tra le mezze parole sussurrate e quelle urlate. Parole che vengono rivolte spesso, anzi sempre, a chiunque venga letto, ascoltato, seguito oltre una misura che la città non tollera. Perché parlare di Napoli si può, ma devi farlo a Napoli, con i napoletani. Eppure tutto questo per me è sempre stato inaccettabile.
A chi ci vive, a chi la studia, Napoli offre infatti un enorme privilegio: poter assistere a un grande laboratorio dove tutto ciò che accade altrove, dove tutto ciò che accadrà altrove, è già accaduto.
È qui che sono state poste le fondamenta del centrosinistra al governo a metà degli anni Novanta. Antonio Bassolino ha a lungo cullato il sogno della ribalta nazionale, perché riteneva che il suo partito gli fosse debitore: se non avesse ingoiato i bocconi amari delle alleanze con Mastella e De Mita il governo Prodi non sarebbe mai nato. Forse è vero. Ma è inaccettabile credere che una stagione lunga vent’anni fatta di successi prima e di fallimenti poi possa chiudersi con l’assoluzione politica per il suo maggiore rappresentante. Il fallimento del Rinascimento napoletano è stato quel credersi diversi solo in quanto diversi e non per la diversa gestione della cosa pubblica. Come se tutto fosse ancora fermo a prima della caduta del muro di Berlino. In apparenza, comunisti contro democristiani; in realtà a braccetto, come per tutto il secondo dopoguerra.
È a Napoli che il definitivo fallimento del centrosinistra si è realizzato. È l’esperienza napoletana ad aver anticipato nei fatti la prossima crisi del Partito Democratico. Questa diaspora è avvenuta qui prima che nel resto d’Italia. Napoli avrebbe potuto insegnare, se ascoltata. La sconfitta definitiva del bassolinismo — del suo sistema clientelare, a metà strada tra Mosca e il distretto metapolitico Ceppaloni-Nusco — è coincisa con il trionfo del rifiuto, oramai esasperato, delle logiche e delle corruzioni partitocratiche. Addirittura è da Napoli che sono partiti gli scandali privati di Berlusconi. Non a caso da Casoria, paesone di quella enorme e caotica periferia che è la città, ma che costituisce allo stesso tempo il colpevole rimosso della stagione bassoliniana. Tutto è cominciato da quella imprudente partecipazione al diciottesimo compleanno di Noemi Letizia.
Qui tutto è laboratorio. Curzio Malaparte aveva ragione: “Quando Napoli era una delle più illustri capitali d’Europa, una delle più grandi città del mondo, v’era di tutto a Napoli: v’era Londra, Parigi, Madrid, Vienna, v’era tutta l’Europa. Ora che è decaduta, a Napoli non c’è rimasta che Napoli. Che cosa sperate di trovare a Londra, a Parigi, a Vienna? Vi troverete Napoli. È il destino dell’Europa di diventare Napoli”.
Napoli sta attraversando una fase difficilissima, forse la più difficile degli ultimi decenni. Si era illusa di nuovo, aveva di nuovo sperato e dato la sua fiducia a un amministratore che non ha avviato alcun percorso di rinnovamento. Mi scrivono: “Verrai a Napoli, non criticare De Magistris, in questo momento c’è bisogno di unità”. Ma io vorrei che una cosa fosse chiara: non c’è nulla di personale nelle mie critiche, i problemi che Napoli ha, non sono stati generati dal sindaco De Magistris. La sua responsabilità sta nell’aver indicato una via facile, nel non aver ascoltato consigli e previsioni di chi gli era accanto. Di chi è stato malamente allontanato. Gli va riconosciuto che Napoli è un territorio difficilissimo e che lo ha trovato allo sbando, in ginocchio, senza speranza. Divorato dal clientelismo. Chiunque si sarebbe trovato in grande difficoltà. A maggior ragione non doveva porsi degli obiettivi così immediati, ma puntare a soluzioni lungimiranti. Tutto questo non è stato in grado di farlo. E deve, con onestà, ammetterlo. Qualche esempio? Il dramma di rifiuti è lontano dall’essere risolto: la raccolta differenziata (che doveva raggiungere secondo le promesse il 70% in due anni) è un miraggio, mentre è una triste realtà l’allontanamento degli uomini che dovevano affiancare il sindaco nel rinnovamento. Persino un’operazione meritoria come la creazione della Ztl si è trasformata in un boomerang, perché (visto lo stato del trasporto pubblico a Napoli) rischia di essere solo un’operazione effimera, destinata a essere cancellata al prossimo cambio di giunta.
E poi la crisi. Oltre il 40% di disoccupazione giovanile, lavoro nero, lavoro criminale come uniche alternative e costanti oramai endemiche. La classe intellettuale spesso allevata e pagata dagli amministratori con prebende e consulenze che in questo modo comprano un silenzio assordante. E un’aggressività tremenda contro i nemici del padrone. Cani da guardia affamati e zelanti, per i quali cultura militante è difesa delle misere briciole del non più lauto banchetto del potere. Il vecchio estremismo privo di idee nuove contagia le nuove generazioni che, guidate da figure oramai caricaturali, giocano per le strade della città “agli anni Settanta”. Un estremismo identico e precario: sempre lo stesso, immobile e ignorante.
La Napoli di oggi è una Napoli che si sognava diversa e che diversa non è. Come dice Riccardo Realfonzo, ex assessore al bilancio, le uniche certezze che Napoli ha nell’immediato futuro sono l’aumento dell’Imu, dell’addizionale Irpef, della tassa sui rifiuti, dei costi di asili nido e mense scolastiche. Aumenti a fronte di servizi che non possono più essere erogati o quasi. Aumenti a fronte di stipendi che non possono essere più pagati. Napoli avrebbe bisogno di riforme per ripartire, non di una cappa sullo sviluppo. Napoli è anche e soprattutto un territorio di risorse. Ed è a queste che oggi si deve fare appello. Perché a Napoli la crisi è atavica. A Napoli non ci si sente smarriti dall’assenza di diritto, come invece accade altrove. E allora è da qui che si può ripartire: dalle energie della città e dalla sua capacità di far fronte alla mancanza di opportunità. È dalle persone, lavoratori che — non risulti ironico — lavorano il triplo di qualsiasi lavoratore nordeuropeo, guadagnando la metà. Quell’enorme fascia sociale che lavora alacremente perché sa che con il proprio sudore dovrà farsi carico delle prebende di una classe dirigente imbelle, i cui privilegi De Magistris non ha neanche provato a mettere in discussione. Quell’enorme massa di cittadini che — nonostante la mancanza di servizi pubblici e la progressiva distruzione del già insufficiente welfare, svuotato dall’interno dalle mafie sindacali e politiche, prima ancora che dalla crisi attuale — ogni mattina, col sorriso sulle labbra e la sua enorme dignità vive nonostante tutto. Rassegnata, ma viva e determinata a dare ai propri figli una possibilità: fosse anche quella di andar via, ché la vita è una sola e non tutti possono permettersi di “giocare agli autonomi” in eterno. Napoli patisce da sempre, ha gli anticorpi e la capacità di insegnare come affrontare emotivamente questo momento difficile, come non perdere la speranza, come prendere le misure. Come rinascere.
Napoli è una bussola, ma l’impressione è che il nostro Paese non sia più alla ricerca di una direzione, che non voglia più trovare l’orientamento. Ed è triste constatare come, ancora una volta, il Sud sia stato tenuto fuori da quest’ultima campagna elettorale. Considerato peso, zavorra, luogo del quale parlare il meno possibile, dove ogni cosa è in mano alla criminalità e tutto il resto è trascurabile. Non mi stancherò mai di dire che sono i ragazzi del Sud a riempire le università del Nord contribuendo in questo modo a tenere in piedi quella parte di economia che attorno a questo ruota. Che la manodopera dal Sud arriva ovunque. Manodopera specializzata, operai che fanno ogni genere di sacrificio pur di non arrendersi a un territorio da troppo tempo negletto. Il Mezzogiorno è centrale nell’apporto intellettuale al nostro Paese, nel contrasto alle organizzazioni criminali cui le procure del Nord sono arrivate tardi. Eppure tutto questo al Sud, a Napoli, non viene riconosciuto. Nonostante la città abbia interlocutori pronti a parlare al Paese.
Quando vivevo a Napoli c’era solo l’Assise di Palazzo Marigliano come voce altra rispetto al potere, oggi grazie ai social network c’è una partecipazione della cittadinanza che è incredibile: va incanalata, utilizzata. Come vanno condivise le esperienze, vanno ascoltate le proposte. Ecco, la colpa più grande di De Magistris è proprio questa: aver finto di ascoltare e di essersi, invece, dimostrato più sordo di chi lo ha preceduto, forse troppo occupato ad immaginare un suo ruolo da politico nazionale, nella sfortunata avventura con Ingroia.
Tornerò dunque a Napoli. A via Toledo, strada che frequentavo moltissimo quando vivevo a piazza Sant’Anna di Palazzo. Tornerò con ansia e paura.
Vorrei che questa città smettesse di ferire a morte, eppure so che è un’illusione. Ferire fa parte di questa terra travagliata e colma di una tale bellezza che chiunque abbia la fortuna di viverci aspira a essere felice sempre; è convinto di poterlo essere, felice. Quando si vive qui tutto sembra possibile. Anche continuare a vivere sebbene feriti a morte.