Concita De Gregorio, la Repubblica 15/4/2013, 15 aprile 2013
LE OMBRE VATICANE SUI GRANDI ELETTORI
IL BACIO dell’anello è una questione di geografia, l’Italia essendo l’unica nazione al mondo che custodisce la Città del Vaticano all’altezza dello stomaco. Di storia, che da millenni intreccia dei due governi i due destini.
DI SOLDI, poiché da sempre e molto strettamente i bilanci dell’uno dipendono dalle decisioni dell’altro. È grosso modo per questo che non c’è paragone tra il livello di attenzione che il Vaticano dedica alla politica italiana, anche minuta e minutissima — i consigli regionali, per dire, i candidati sindaci, persino — e l’interesse che riserva alle presidenziali francesi, alle elezioni andaluse, alle lotte di potere messicane. È per le stesse ragioni — di vicinanza, di confidenza con la materia, di interesse economico diretto — che la Curia romana destina la massima attenzione alla formazione dei governi, un’ancora stretta ma meno severa vigilanza all’elezione del capo dello Stato. I governi decidono: di scuole private, di sanità, di tasse sui beni immobili, di diritti in materia di famiglia, libertà della persona. I presidenti no. Almeno, non direttamente.
Lo ha spiegato in estrema sintesi, una decina di parole, Silvio Berlusconi quando era presidente del Consiglio: “L’attività di governo non può che compiacere il Papa e la sua Chiesa”, ha detto il 6 giugno del 2008 reduce da un lungo e cordialissimo colloquio col Pontefice, presente come sempre Gianni Letta. Non può che compiacere. Di più, sempre da presidente del Consiglio, in un telegramma per gli 80 anni del cardinale Ruini: “Auspico che continui ad essere con la sua saggezza ed esperienza fonte di riflessione e di guida per tutti noi”. Il presidente della Conferenza episcopale guida del capo del governo italiano e, per estensione, di tutti noi.
Gennaro Acquaviva è stato a metà degli anni ‘80 l’uomo che per conto di Craxi ha portato a termine la revisione del Concordato, assiduo sherpa tra le due sponde del Tevere: “Montini, Siri, Silvestrini facevano politica direttamente con grande intelligenza. Negli ultimi trent’anni la classe dirigente della chiesa è progressivamente decaduta. Ha fatto campagne elettorali, certo, ha sostenuto i suoi interessi attraverso i suoi candidati. Ma da molto tempo non è più decisiva nell’elezione di un presidente della Repubblica: almeno dai tempi di Pio XII”. Dalla fine degli anni Cinquanta, dice Acquaviva. In realtà qualcosina dev’essere successo anche dopo, di certo almeno fino al pontificato di Paolo VI se — ha raccontato il corrispondente di Le Monde dell’epoca, Jacques Nobecourt — fra il 17 e il 22 dicembre 1964, cinque giorni, andarono in tre a casa di Fanfani per tentare di dissuaderlo dalla tentazione di fare il Presidente. Nell’attico di via Platone arrivò prima Angelo Dell’Acqua, sostituto della Segreteria di stato vaticana, poi il segretario particolare del Papa monsignor Macchi, infine l’assistente generale dell’Azione cattolica Franco Costa. Esasperato, l’impulsivo Fanfani rispose: “Riferisca a chi la manda che se lui continua a pretendere di insegnare a me come regolarmi in queste faccende verrò tra breve a prendere la parola in concilio per insegnargli come si deve dire messa”. In ogni caso, passato il momento di comprensibile fastidio, Fanfani rinunciò. Preferì trasformare — come si usa in questi casi — il sacrificio in un credito.
Il bacio dell’anello, o per i più atletici la genuflessione fino alla pantofola, è rimasto nei decenni successivi un gesto simbolico relegato alle personali inclinazioni e sensibilità. Oscar Luigi Scalfaro, che pure era un terziario francescano ed andava col Papa ad Assisi in visita al Sacro convento, aveva nei confronti di Giovanni Paolo II una devozione pari all’indifferenza con la quale si divertiva ad ignorare i cardinali. Consegnava chiuse ai suoi collaboratori le buste con gli stemmi dorati che arrivavano dal Vaticano — racconta il Segretario generale del tempo — in occasione dei conferimenti di incarico per i governi: “Ti do due buste, conservale. Le apriamo dopo”, sorrideva.
Dice Ciriaco De Mita che la Curia romana ha sempre avuto molta miglior disposizione di quanto non si creda verso i comunisti, erano semmai i socialisti a impensierirla. “Ricordo che appena eletto segretario Dc andai a Genova, mi dissero che Siri voleva vedermi. Avanzava maestoso, pareva un principe rinascimentale. ‘Hanno fatto bene a scegliere lei, che è un birbante’, mi disse. Feci qualche osservazione a proposito delle dinamiche verso il Pci. ‘Ma no, è la cultura socialista, piuttosto, a darmi pensiero’, mi rispose”. Era in carica Pertini, in quegli anni. E anche in questo caso i rapporti del presidente (socialista) con la Curia erano tanto ruvidi quanto disinvolta era la relazione con Papa Wojtila, col quale andava sull’Adamello a sciare. Quando il presidente fu ricoverato all’Umberto primo per un malore, nel 1987, Wojtyla andò in ospedale da lui e rimase mezz’ora fuori dalla porta senza poter entrare. “E’ stato mio amico fin dal primo incontro — disse alla moglie — se domanderà gli dovete dire che il Papa era qui ma l’ha trovato in sonno e non l’ha voluto disturbare”.
Con Ratzinger che — dice Acquaviva per raccontare della sua estraneità alle lotte di potere — “era un papa che suonava il pianoforte” la pratica della gestione degli affari correnti è passata del tutto nelle mani delle seconde linee. “Se ne occupava Bertone, salesiano molto operativo al quale dovrei anche essere grato: ha inventato l’8 per mille, il Concordato me l’ha risolto lui”. L’ha risolto con una percentuale sulla dichiarazione dei redditi, tanto per essere chiari e capire di cosa si tratti davvero. “Bertone era ed è grande amico di Tremonti. Si intendono e si assistono sulle questioni di loro pertinenza. Non dico che siano tutte questioni di conti ma in prevalenza, diciamo, potrebbero”. Bertone è l’uomo dello Ior, la banca vaticana nella black list del sistema di vigilanza mondiale, il grande pozzo da cui transitano denari della cui provenienza da decenni procure d’ogni dove chiedono invano di sapere. Lo Ior è al centro della vicenda — Vatileaks — che ha portato alla rinuncia di Benedetto XVI, il papa del pianoforte. De Mita: “Ratzinger aveva una dimensione molto religiosa. Ad essere presenti sulla scena politica erano altri. Ruini per esempio. Molto presente. Direi troppo presente”.
Ma d’altra parte, passa in rassegna la storia Acquaviva, “non c’è mai stato nessun Ruini che abbia mosso ciò che non poteva, o che in fondo non interessava. Dossetti voleva Sforza presidente e non lo ebbe, dissero che era donnaiolo e massone, liquidarono la faccenda così. L’elezione di Gronchi fu un piccolo golpe contro la Dc ordito dai socialisti che volevano rientrare in gioco. L’ascesa di Leone una partita tutta interna alla Dc contro la sinistra. Sì, Silvestrini interveniva, consigliava. Montini avrebbe voluto Moro. Ma il peso della Chiesa è andato negli anni indebolendosi insieme alla consistenza intellettuale e in qualche caso morale degli uomini”. Sono sul tavolo questioni sempre più pratiche, sempre meno ideali. Anche quando lo sembrano — quando hanno l’aria di battaglie etiche — nascondono interessi d’altro tipo. La gestione dell’immenso patrimonio immobiliare. Dell’istruzione e delle cliniche private. La sanità, la scuola, le tasse. “Oggi, poniamo, monsignor Crociata segretario generale della Cei può fare campagna elettorale per opporsi alla Bonino alla Regione Lazio, trovando magari complicità inaspettate a sinistra. Ma quanti voti sposta, in un sistema sempre più disgregato? Qual è davvero la compattezza della falange politica che risponde al mondo cattolico e soprattutto: quali sono le ragioni che la muovono?”.
“Il dramma dei divorziati esclusi dalla comunione”, era il titolo di un editoriale del Giornale di Berlusconi qualche anno fa: seguì fitto e pensoso dibattito tra i massimi esponenti delle gerarchie e del credo religioso. Persino in un ambito come questo, non immediatamente misurabile in termini di cassa né di primaria urgenza per le sorti del Paese, si fa tuttora qualche fatica a non rilevare una sovrapposizione di interessi: personale, pastorale, elettorale. Nei giorni del recente conclave c’era chi diceva che sarebbero bastati “sei mesi di pontificato di Carlo Maria Martini per cambiare il destino della Chiesa, molto in subordine anche quello dell’Italia”. E’ stato eletto Papa Francesco, che di Martini era il candidato nel 2005. “C’era un cardinale in più, in cielo, a votare per Bergoglio”, sorride don Virginio Colmegna che di Martini a Milano è stato il braccio destro: “Francesco sarà un Papa capace di cambiare la storia della Chiesa e certo dell’Italia non con le parole ma coi fatti. Col tempo, e coi gesti che sono anche omissioni”. Il non dire, il non fare. In questa vigilia di conclave laico, a pochi giorni dal voto per il Colle, non c’è chi senta — neppure tra i suoi uomini più fidati — la voce del Papa. Un silenzio che rovescia gli animi e svapora le intenzioni. Che molti rende inquieti, nella Roma dei Papi e dei Re, molti altri rincuora.
(7 — fine)