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 2013  aprile 15 Lunedì calendario

BANCHE POPOLARI: CAMBIARE NON E’ UN OPTIONAL

Nelle banche popolari vige il voto capitario: per la concezione mutualistica, in assemblea ogni socio ha diritto a un voto, che abbia un’azione o un milione di azioni. Nel sistema capitalistico invece si conta (o si dovrebbe contare) per le azioni possedute. Perciò le popolari dicono di non avere padroni e di essere le sole vere public company italiane. Ad un serio esame l’affermazione vacilla: che non abbiano soggetti controllanti per la legge è vero, ma che non siano rette da gruppi informali di controllo è a volte falso, spesso remoto parente del vero. Per questo il voto capitario, specie nelle popolari quotate, preoccupa la Banca d’Italia. Il management di molte popolari è autoreferenziale, a volte è lì da prima che Richard Nixon dichiarasse finita la convertibilità del dollaro in oro (1971); se i 44 anni di Pelizzo alla popolare di Cividale sono un record, altri presidenti sfiorano il quarantennio. Le aziende non sono democrazie, dove il ricambio è essenziale, ma la sostanziale inamovibilità dei vertici fa male. Così le banche rinviano ogni mutamento finché i problemi, ormai insolubili, scoppiano, spesso traumaticamente. Facciamo un breve giro turistico, iniziando dalla popolare di Lodi, dove le folle osannavano quel Fiorani che ha portato la banca al disastro, per passare a quella di Milano, dove solo l’intervento della Banca d’Italia ha disarcionato un vertice che, ben saldo in sella, si stava giocando la banca. Lo ha evitato solo l’intervento di fondi di private equity che ora, per valorizzare l’investimento, vogliono trasformare la popolare in una Società per azioni, sia pur sui generis: chiaro esempio di come la mala applicazione di una formula rischi di condannarla all’estinzione.
Va bene il mutualismo, ma se tarpa talmente la «disciplina di mercato» da esporre la banca ad avventure capaci di distruggerla, urgono antidoti al suo abuso. Tanto più che il coraggio non è la virtù più diffusa in Italia e di coraggio, per presentare alle assemblee delle popolari liste alternative a quella del gestore incumbent, ne serve. Non è tanto il voto capitario il problema, quanto come è applicato. Alcune popolari hanno centinaia di migliaia di soci, ma il loro destino è deciso da poche migliaia; ben ci si guarda dall’uso dei moderni sistemi di comunicazione. Spesso i soci ricevono una lista prestampata, con poco spazio per altri nomi. Le deleghe che ogni socio può ricevere sono pochissime. Le campagne di raccolta delle deleghe, ammesse per le SpA quotate, sono proibite nelle popolari, per l’azione della lobby che nel ’98 bocciò in Parlamento le proposte della commissione presieduta da Mario Draghi, allora al Tesoro. La fissità dei vertici spinge alcuni — speculatori in cerca di guadagni facili, come seri professionisti desiderosi di cambiare la gestione di banche sclerotizzate — a sfidare il gruppo incumbent. Onde la crescente litigiosità di tali assemblee, cui i gestori reagiscono perdendo lucidità, nuocendo così alla banca che vorrebbero difendere. Come giudicare altrimenti — e andiamo a Bergamo, dove i soci di Ubi Banca voteranno il 20 aprile — il brusco dimissionamento del direttore generale della maggiore banca del gruppo, sospettato nientemeno che di simpatie per una lista diversa da quella dei gestori in carica? Se la banca è ben gestita non ha da temere l’espressione di dissensi, tanto più se essi sono informati, civili e motivati.
Ultima tappa, Vicenza, dove la popolare non si sottopone alla disciplina della quotazione, ma è valorizzata (da un perito certo indipendente) quasi 5 miliardi: il doppio di Ubi! Eppure quei pedanti della Banca d’Italia chiedono un aumento di capitale di 100 milioni: già si vede la ressa degli azionisti ansiosi di sottoscriverlo.
Metodi simili molto nuocciono al mutualismo, che la grave crisi rilancia come alternativa al capitalismo agli occhi anche di qualificati economisti: sarà bene depurarlo in fretta dalle sue gravi distorsioni, in un Paese in cui tutti aspiriamo, spesso riuscendoci, ad essere casta inamovibile.
SALVATORE BRAGANTINI