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 2013  aprile 15 Lunedì calendario

MALATI DI PROTAGONISMO E VITTIME INNOCENTI

Giovedì scorso Pietro D’Amico è andato da solo da Vibo Valentia a Basilea, nella clinica che lo ha aiutato a togliersi la vita. Aveva 62 anni. Fino al 2003 aveva fatto il pubblico ministero. Poi il suo nome era emerso nello «strascico» di un’inchiesta di De Magistris che assieme al consulente Genchi aspirava a mettere sotto controllo mezza Italia. D’Amico non aveva fatto niente, come tanti nomi dati in pasto all’opinione pubblica per meglio farne oggetti di ludibrio collettivo. Non aveva commesso alcun reato, come tanti nomi che sono «coinvolti», screditati, distrutti e poi riconosciuti totalmente estranei alle vicende che occupano le prime pagine dei giornali. D’Amico venne prosciolto, uscì dalla magistratura, scrisse molti libri. Ma era un uomo devastato. È crollato. Non ha retto al peso della macchina della gogna che gli hanno costruito addosso non per un errore giudiziario ma per la conduzione deliberatamente, fanaticamente forcaiola delle inchieste. È andato in Svizzera per uccidersi, perché non ce la faceva più a vivere.
Il nome di Pietro D’Amico è il simbolo di tutti i «coinvolti», di tutti gli innocenti schiacciati da una giustizia malata e ingiusta, dal protagonismo forsennato di magistrati che hanno bisogno dell’esposizione mediatica quanto un tossico è alla disperata ricerca di una dose di veleno. È il simbolo di chi, spesso nemmeno indagato, vede esibito il suo nome sul muro della vergogna senza aver mai commesso l’ombra di un reato. È il simbolo del credito eccessivo, cieco, fideistico, assoluto che i media regalano all’accusa inquisitrice lasciando il «coinvolto» senza difese, con la reputazione macchiata, travolto dalla macchina del sospetto, coperto dal fango che con mezzi formalmente leciti gli hanno scaraventato addosso. È il simbolo delle vittime del pettegolezzo, del misticismo della «trasparenza» con cui si nega a chiunque ogni tutela della propria vita privata, dell’onnipotenza dell’accusa, delle crudeltà dei meccanismi mediatici che stritolano chi finisce negli ingranaggi di una concezione perversa della giustizia.
È il simbolo dei tantissimi che vengono prosciolti nelle maxi-inchieste destinate quasi sempre a finire nel nulla. Di chi patisce, innocente, la vergogna del carcere preventivo. Degli assolti la cui assoluzione finisce in due righe, mentre ai tempi delle indagini l’accusa meritava due pagine. Di chi non c’entra niente, ma ha perduto tutto. Di un Paese feroce e barbarico che inneggia a chi si ammazza per disperazione, come il dirigente del Monte dei Paschi di Siena dileggiato sui social network appena scoperto il cadavere: «la prova che era colpevole, voleva nascondere qualcosa, è morto di vergogna». Del Paese perennemente attratto dalla tentazione della ghigliottina e che ha demolito la vita di Pietro D’Amico, un lungo viaggio dalla Calabria a Basilea, per raggiungere la clinica in cui l’avrebbe fatta finita, vittima di un sistema iniquo in cui persino il diritto di critica viene equiparato a un sabotaggio della giustizia.
Pierluigi Battista