Pietro Citati, Corriere della Sera 15/04/2013, 15 aprile 2013
ACHILLE SOGNA PATROCLO: IL SOGNO PIU’ BELLO DELLA STORIA DELL’OCCIDENTE - I
sogni dei tempi omerici hanno una qualità straordinaria. Quelli dei tempi moderni nascono dalla psicologia: fioriscono nell’ombra che ci accompagna, rivelano le nostre ansie e i nostri dolori, rispecchiano la tumultuosa complessità del nostro passato: mentre i sogni omerici posseggono una vita autonoma, preesistono e sono estranei alla esistenza dei sognatori. Così scrive Giulio Guidorizzi nella prima parte del suo bel libro Il compagno dell’anima. I Greci e il sogno (Raffaello Cortina). Abitano molto lontano da noi, presso la «rupe bianca» e le «porte del sole», all’estremo occidente della terra, non lontano dall’Ade. Il loro signore è il dio Ermes, che guida sia i morti sia i sogni. Li conduce con la sua bacchetta d’oro, con la quale, quando vuole, chiude gli occhi degli uomini, o li desta dal sonno. Guidati da Ermes, essi sciamano, percorrono il mare e la terra e si introducono, non sappiamo come, nelle menti degli uomini.
Chi legge l’Iliade o l’Odissea conosce la seconda qualità dei sogni omerici. Sono compatti, fluidi, narrativi: si organizzano naturalmente come racconti; a differenza dei sogni moderni, che sono un complesso di frammenti suddivisi, spezzettati, disordinati, ai quali soltanto l’interpretazione dello psicoanalista conferisce una architettura. Qualcuno potrebbe obiettare che questa compattezza dipende dal fatto che Omero li costruisce sapientemente con la ragione e quindi appartengono alla coscienza.
In realtà, la luce dei sogni omerici non ha niente a che fare con quella della ragione: è una forza molto più misteriosa, che opera nell’ombra, ha tutte le proprietà elusive e ambigue dell’ombra, e una qualità luminosa e divina, che ci rende chiari i particolari e i significati.
Credo che il sogno più bello della letteratura greca e occidentale sia quello di Achille, nel ventitreesimo libro dell’Iliade. Achille stava disteso sulla riva del mare, in un punto sgombro da navi, e gemeva dal profondo del petto. Quando il sonno lo prese, lo avvolse dolcemente, sciogliendo le pene del suo cuore e delle sue membra. All’improvviso, gli apparve l’ombra di Patroclo: simile a lui in tutte le cose, la statura, gli occhi bellissimi, la voce, gli abiti. Come fanno i sogni, gli rimase sospeso sopra la testa. Poi prese a parlargli: «Tu dormi, Achille, e ti dimentichi di me. Non ti scordavi di me quando ero vivo, ma ora che sono morto ti scordi di me. Sono disteso fuori dal portale dell’Ade e le altre ombre non mi permettono di unirmi a loro oltre il fiume. Dammi sepoltura al più presto, in modo che anch’io possa passare. Quando mi avrai onorato col fuoco, non tornerò più dall’Ade. Mi ha ghermito la morte odiosa e non staremo mai più insieme, appartandoci dai nostri compagni, a discutere piani e progetti, come quello di conquistare Troia da soli. Presto la morte afferrerà anche te, per mano di un dio e di un troiano».
«Ma ti prego di un’altra cosa» continuò l’ombra di Patroclo. «Siamo cresciuti fin da bambini nella stessa casa, dove mi ospitò tuo padre, Peleo: e tu non mettere le tue ossa divise dalle mie; la stessa anfora d’oro, quella che ti ha dato tua madre, accolga insieme le nostre ossa». Di rimando gli disse Achille. «Certo io farò tutto per te e mi comporterò come desideri. Ma avvicinati a me. Abbracciati almeno per un istante, gustiamo insieme il piacere del pianto amaro». Achille distese le braccia attorno all’ombra di Patroclo: ma non poté stringerla al petto: il mondo dei vivi è totalmente diverso da quello dei morti; noi non possiamo abbracciare le persone morte che amiamo, come apprenderà anche Ulisse nell’Ade, cercando inutilmente di abbracciare la madre. Stridendo, l’ombra di Patroclo discese come fumo sotto la terra.
Achille si svegliò stupito, batté le mani una contro l’altra, e disse: «Ah, esiste anche nell’Ade l’ombra e la parvenza. Ma non è vita. Tutta la notte mi è stata accanto l’ombra di Patroclo, in tutto simile a lui: piangeva e gemeva e mi ha comandato molte cose, una per una». Così finiscono spesso i sogni, osserva Guidorizzi: nel momento culminante, con un desiderio incompiuto, nel passaggio dal sonno alla veglia. La immagine di Patroclo è certo un sogno: ma è al tempo stesso una realtà oggettiva, un’ombra insepolta presso le porte dell’Ade, che viene risospinta dalla realtà dei vivi a quella dei morti. Non possiamo dire se l’immagine di Patroclo svanisca perché Achille si risveglia o fugga via perché l’apertura che connette i vivi e i morti si è improvvisamente chiusa per qualche misteriosa ragione.
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Questi sogni, che provenivano da lontano, guidati da Ermes, non erano visioni isolate, ma facevano parte di uno stesso sistema di segni. Come diceva Sinesio, un tardo neoplatonico, essi erano connessi tra loro in un grande libro: una catena di significati legava tra loro tutte le manifestazioni del cosmo secondo leggi ignote ai più, ma non per questo meno esatte. «Tutte le cose — scriveva Sinesio — sono collegate per parentela le une alle altre, affratellate in quell’unico organismo vivente che è l’universo». Grazie alla rivelazione onirica possiamo scavalcare le barriere che separano l’alto e il basso, il mondo divino e quello umano, quello passato e quello futuro: le anime che popolano il giardino del mondo si avvicinano: possiamo sognare per conto di altri, sognare insieme a un altro lo stesso sogno; e vedere in sogno ciò che un altro vede nella veglia. A questo punto la rivelazione onirica è un punto d’incrocio tra realtà differenti. Ma chi promuove questi incontri? La stessa fittissima e foltissima realtà dell’universo? O c’è un meraviglioso burattinaio — un dio o un demone — che gioca con i nostri sogni, si diverte a tessere tele vaste e incomprensibili?
Nella Grecia del tardo arcaismo si sviluppò l’idea che qualsiasi rappresentazione mentale — non solo quelle oniriche, ma tutte le altre forme di emozione e di riflessione — fossero il prodotto di una entità invisibile, racchiusa dentro ogni essere umano, chiamata anima (psyché). L’anima diventò così il vero io, e Socrate diceva che «bisogna prendersi cura di lei più di ogni altra cosa». Da quel momento il sogno diventò il compagno dell’anima, come scrive Giulio Guidorizzi: un compagno segreto ma inseparabile. La sua esperienza era quella dell’anima in sé stessa e per sé stessa, senza che il corpo ne fosse coinvolto; ed era la prova certa che essa ha in sé «qualcosa di divino». Quando il corpo giaceva come morto nel sonno, l’anima si ridestava. La rivelazione onirica non aveva dunque nulla a che fare con la coscienza. Durante il sonno si attivava una parte profonda dell’essere umano: ciò che l’anima vedeva mentre il corpo era addormentato, appariva come un ritorno alle origini: alle sue origini. «Quando dorme — scrisse Eschilo — la mente scintilla di mille occhi, mentre di giorno gli uomini sono di vista corta». Se il corpo riposava — disse un medico del sesto secolo a.C. — l’anima sveglia conosceva tutto, vedeva ciò che va visto, udiva ciò che va udito, camminava, provava dolore, provava ira, ricordo e amore.
Allora l’anima ascoltava voci prodigiose: un’aura amena circondava il suo letto: percepiva odori soavi: scorgeva una luce meravigliosa; le figure sacre apparivano maestose e benevole, perfette nella loro bellezza. Poi, all’improvviso, il corpo si risvegliava: l’anima si addormentava; e l’epifania divina si dissolveva, lasciando dietro di sé la delusione dell’abbandono.
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Passarono molti secoli. Alla fine del diciannovesimo secolo e al principio del ventesimo, Freud e Jung tornarono, come i greci, a occuparsi sopratutto dei sogni, come se fossero l’unica strada per scoprire la verità. Nel 1897 Freud cominciò a scrivere L’interpretazione dei sogni, con una passione, un furore e un invasamento poetico, che uno scienziato non ha mai conosciuto. Lavorava dieci ore al giorno. Poi, nelle ore notturne, dalle undici alle due, restava nello studio, al pianterreno della sua casa, a fantasticare, congetturare e interpretare.
L’interpretazione dei sogni è percorsa da una fitta serie di citazioni e di allusioni letterarie, Sofocle, Virgilio, Shakespeare, Goethe, che rivelano come l’immersione onirica risvegliasse il fortissimo senso mitico di Freud. Queste citazioni — non i discorsi e le definizioni intellettuali — hanno il compito di esprimere la sua intuizione dell’inconscio. Freud scese nelle tenebre, nell’abisso, negli inferi, nel regno dell’Acheronte, dove abitavano gli dei della notte. Erano gli unici dei che egli potesse conoscere: lì viveva il numinoso, il tremendum, l’indimenticabile e l’indistruttibile, verso il quale provava un’infinita venerazione e un infinito terrore. La sua via era segnata. Come l’archeologo, doveva discendere strato per strato, dissotterrando la città sepolta, fino all’ultima Troia: come il minatore, doveva scavare pozzi sempre nuovi, nei quali incontrare i pensieri del sogno.
Il fatto paradossale è che questa intuizione mitico-sacra dell’inconscio resta confinata nelle allusione letterarie dell’Interpretazione dei sogni. Nei sogni, che Freud racconta e che in gran parte estrasse dalle sue notti, manca quasi ogni traccia di mito e di numinoso e gli innamorati delle grandi fantasie oniriche romantiche dovranno cercare altri testi: Jean Paul, Nerval o Jung. I sogni di Freud sono composti di microscopici frammenti, di unità impercettibili, di minime tessere, che poi l’inconscio incastra fra loro, fino a formare un conglomerato ingegnoso. Così leggendo L’interpretazione dei sogni, il brivido oscuro che ci aveva lasciato il dio della notte scompare o viene modificato. Il dio dell’inconscio assomiglia a delle figure che incontriamo continuamente nella vita del giorno: un tessitore davanti al suo telaio, un artigiano che compone mosaici o tarsie, un giocatore di scacchi che calcola i movimenti delle sue pedine e persino un cinico truffatore, tanto mente, si maschera ed è privo di scrupoli. La sua attività è formale e combinatoria: mentre Freud lo spia, eccolo lì che lucidamente, geometricamente, con una regolarità e una precisione da orologio, occulta, omette, condensa, traduce, deforma, trasforma, sposta... Che il tremendo dio dell’Acheronte si comporti come un meticoloso artigiano, questa è la grande scoperta che Freud insegnò al secolo che inaugurava.
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La rappresentazione greca del sogno, anche quella dei tempi più tardi, che Guidorizzi analizza con grande intelligenza, è molto più vasta, libera, mobile e polimorfa di quella degli psicologi moderni. Sia Freud sia Jung hanno consumato, sia pure in modi diversi od opposti, un’immensa quantità di inconscio: ma alla fine questo inconscio è stato trasformato, razionalizzato, spesso falsificato; e nei loro scritti resta pochissimo inconscio autentico. Per fortuna, la mente umana è stata salvata dai grandi scrittori, come Proust e Kafka, che percorsero la strada opposta a quella di Freud e di Jung.
Tutte le profondità della terra, le città sotterranee, le caverne incalcolabili, tutto il regno dell’ombra deve essere portato, Proust lo ripete mille volte, alla «piena luce». Quando era giovane aveva scritto: «Se il poeta percorre la notte, che sia come l’angelo delle tenebre, portandovi la luce». Ma qualsiasi illuminazione dell’inconscio, Proust lo sa egualmente bene, è estremamente rischiosa, perché l’intelligenza può cancellare e disseccare l’ombra, che dà profondità e vastità alla letteratura e all’esistenza. Quando viene alla luce, l’ombra deve riconoscere la sua vita, il suo abisso, il suo velluto, il suo setoso geranio. In un brano abolito della Recherche, Proust espose il proprio programma: era necessario che le parti inconsce dell’io conoscessero direttamente sé stesse, senza passare attraverso la coscienza, diventando riflettenti, «come ha fatto la nostra carne sotto la fronte, là dove si è trasformata in occhio».
Pietro Citati