Marta Serafini, Corriere della Sera 15/04/2013, 15 aprile 2013
DALL’ANTICO EGITTO A GOOGLE: SE NON SEI «INDICIZZATO» NON ESISTI
Essere sul motore di ricerca significa esistere. Essere in alto nell’elenco dei risultati del motore di ricerca significa vivere. Indicizzazione e posizionamento ormai sono le parole dalle quali in Rete non si può prescindere. Un dogma, che non vale solo per chi fa ecommerce o per chi vuole pubblicizzare un bed and breakfast. La sentenza è chiara: sul web non basta fare pubblicità. Che, tradotto per i profani, significa mettersi nelle mani di chi questo lavoro lo sa fare. «Prima di tutto sono necessari contenuti popolari. Se i motori di ricerca si accorgono di un aumento di traffico alzano il sito nel ranking. Ma una volta che i click calano, la posizione si abbassa», spiega il web developer Jonathan Mele. L’indicizzazione dei siti web su Google funziona sulla base di un algoritmo di valutazione della rilevanza di una pagina chiamato Pagerank, che viene costantemente aggiornato. A idearlo furono loro, i padri fondatori di Mountain View, Larry Page e Sergey Brin. L’invenzione geniale? Un valore numerico che Google attribuisce a tutti gli indirizzi dopo che è stato passato al setaccio il codice dei siti. Per iniziare vanno inseriti dei codici univoci nella struttura html, composti da lettere e cifre. Basta sbagliare una virgola e si scompare. Ed è qua che entra in gioco il processo di Seo (Search engine optimization). Le variabili sono tante: «Chi lavora nelle agenzie specializzate sa bene, ad esempio, quanto il corpo di un carattere usato in un titolo sia importante. Poi, ci sono parole che devono essere ripetute anche 200 volte in una pagina affinché la posizione in classifica salga». Un lavoro monumentale, che per un piccolo sito può arrivare a costare cinquemila euro al mese e richiedere due ore di lavoro al giorno.
Questa la tecnica. E se a tratti pare oscura (c’è chi polemizza con Google per la scarsità di trasparenza sull’uso di questo algoritmo), gli effetti sono facili da immaginare. «L’80 per cento degli investimenti delle aziende si concentra ancora sugli annunci sponsorizzati ma è ormai ampiamente dimostrato che l’attenzione degli utenti è focalizzata sui contenuti restituiti dal motore. Quindi sia i soggetti politici che i privati devono fare i conti con questo aspetto», avverte Giuliano Noci, docente del Politecnico di Milano.
Così basta poco per capire come la storia ormai la facciano i partiti che stanno stare sul web. Uno su tutti il M5S, spinto da Grillo e Casaleggio che più degli altri hanno saputo interpretare il cambiamento. Più difficile invece comprendere come l’indicizzazione sia nata ben prima della Rete. «Il primo esempio è il Catalogo della biblioteca di Alessandria: la descrizione di oggetti raccolti in un insieme risale dunque all’età greca ellenistica», spiega Mirko Tavosanis, ricercatore di linguistica italiana presso l’Università di Pisa. Un racconto appassionante che prosegue nei secoli e che si ritrova anche nelle pagine di Too Much to Know della storica americana Ann Blair. Antenati di Brin e Page furono dunque il poeta e filologo greco Callimaco. Ma anche il primo editore italiano, Aldo Manuzio, che a cavallo tra Quattrocento e Cinquecento inventò gli indici dei libri. In mezzo, il lavoro certosino dei monaci che durante il Medioevo scrissero le bibliografie e catalogarono le biblioteche universitarie. Come dire, insomma, che a inventare l’indicizzazione non sono stati né gli imprenditori né i politici. Ma uomini illuminati che capirono prima degli altri ciò che ebbe a dire anche Sir Francis Bacon. E cioè che sapere è potere.
Marta Serafini