Andrea Nicastro, Corriere della Sera 13/04/2013, 13 aprile 2013
GLI INDIGNATI DEL CASO PERLASCA — Franco Perlasca è un uomo paziente e, da trent’anni, vive sommerso dai documenti sulla straordinaria vicenda del papà Giorgio, considerato lo Schindler italiano
GLI INDIGNATI DEL CASO PERLASCA — Franco Perlasca è un uomo paziente e, da trent’anni, vive sommerso dai documenti sulla straordinaria vicenda del papà Giorgio, considerato lo Schindler italiano. Nella sua mailing list ci sono associazioni ebraiche, ambasciate, sopravvissuti ai lager, professori, storici e soprattutto decine di persone che il padre salvò dalle retate naziste di Budapest negli ultimi mesi della guerra. Gente che ha voluto registrare la propria testimonianza affinché il Museo dell’Olocausto di Gerusalemme decidesse di conferire a Giorgio Perlasca la medaglia di Giusto delle Nazioni. «Molti di loro sono ancora vivi — racconta Franco — e si ricordano bene di come mio padre, Giorgio Perlasca, li tolse dai convogli destinati ad Auschwitz. È una fortuna che sia tutto registrato, provato, scritto e confermato, perché solo così libri come quello di Arcadi Espada possono serenamente finire nelle scovazze». E scovazze, in veneto, sta per pattumiera. Lo «schiaffo al mito Perlasca» arrivato dalla Spagna ha fatto male e ha lasciato i segni sulla coscienza di tanti. Mercoledì il «Corriere» ha dato conto della pubblicazione a Madrid di un nuovo saggio che tenta di demolire lo Schindler italiano: En nombre de Franco («In nome di Franco»), scritto dal giornalista Arcadi Espada. Decine di mail, proteste, comunicati di organizzazioni ebraiche hanno inondato il giornale. «Mettere minimamente in discussione la figura di Giorgio Perlasca rappresenta uno sfregio all’umanità», scrive Marco Bergonzi da Piacenza. Macché «storico» spagnolo, attacca Ivano Presotto. «Un’offesa alla memoria», sostiene Roberto Fumagalli da Seveso. «Abbiamo così pochi eroi moderni in Italia! — scrive Guido Barbieri —. Non possiamo qualche volta stringerci con orgoglio a loro e alle loro vicende?». «Perlasca merita rispetto e onore» scrive Daniela Pardi. E poi tanti, tanti altri, compreso Antonio Giordano, il funzionario che studiò i documenti del «caso Perlasca» per conto della presidenza del Consiglio, o Maurizio Piha, che si definisce «ebreo italiano» e assicura di conoscere l’eroismo di Perlasca «al di là dei pettegolezzi spagnoli». Davanti ai dubbi e alle accuse che arrivano da Madrid, il figlio Franco, presidente della Fondazione che conserva il nome e la fama del padre, allarga le braccia. «Quando la casa editrice mi inviò il libro giorni fa, gli diedi una letta e alla fine pensai di buttarlo nell’immondizia. È pieno di falsità ed è animato da un’acredine che non capisco. Più che comportarsi da storico, l’autore veste i panni dell’ultrà da stadio. Tifa per l’ambasciatore spagnolo dell’epoca, Ángel Sanz Briz, anche lui proclamato Giusto delle Nazioni, e sembra che solo sminuendo l’operato di mio padre possa far crescere l’importanza di ciò che fece il diplomatico. E dire che, quando Espada venne a trovarmi, gli diedi moltissimo materiale. Documenti che smentiscono ognuna delle accuse che poi ha lanciato. Questo signor Espada è solo un polemista, era a caccia di citazioni che avvalorassero la sua tesi». Il libro spagnolo accusa Perlasca di aver enfatizzato il proprio ruolo nel salvataggio degli ebrei ungheresi dai campi di sterminio, di aver meticolosamente costruito la propria figura di eroe approfittando d’essere l’unico dei diplomatici (veri o falsi) a essere arrivato vivo alla soglia degli anni Novanta. La ricostruzione di Espada rimprovera anche l’italiano di aver ignorato il contributo dei dipendenti dell’ambasciata spagnola per emergere come unico eroe. «Non sapeva né tedesco né ungherese» scrive il giornalista-scrittore, «come avrebbe potuto discutere da solo con nazisti e milizie magiare per difendere gli ebrei?». «Ridicolo — ribatte il figlio di Perlasca —. Mio padre lavorava da anni nell’ex impero asburgico e sapeva abbastanza tedesco per trattare con le autorità. Quanto all’ungherese, non lo parlava, è vero, ma nelle sue memorie (L’Impostore, pubblicate dal Mulino) racconta diffusamente dell’interprete che, peraltro, vive in Francia e avrebbe ben potuto spiegare a Espada come sono andate veramente le cose a Budapest nel 1944». «Mio padre racconta anche dei funzionari d’ambasciata che, giustamente, Espada esalta. L’accusa di aver voluto esagerare i propri meriti si smentisce leggendo il libro di papà. Dell’avvocato d’ambasciata, Zoltán Farkas, parla per sei pagine, riempiendolo d’elogi. Espada dimentica però che Farkas era ebreo e che non era affatto salubre per lui affrontare quella gente in divisa. E poi, in ogni caso, è davvero importante? Farkas è di sicuro un eroe, come l’ambasciatore, come altri che si sono adoperati per salvare 5200 ebrei. Assieme a mio padre, non in concorrenza con lui come vuol far credere Espada». Il governo spagnolo ha decorato Perlasca con l’Ordine di Isabella la Cattolica, ma da altri angoli di Spagna sono emerse acredini nei confronti dell’italiano anche prima di quest’ultimo libro. Nel 2011 la Televisión Española produsse il film El Ángel de Budapest, nel quale praticamente si ignora il contributo di Perlasca alla salvezza degli ebrei. Gli eredi dell’ambasciatore Sanz Briz, poi, non hanno mai voluto che i due protagonisti di quei giorni venissero accostati. Così perfino le targhe affisse a Budapest sono separate. Lo stesso per i convegni. O per uno o per l’altro. Nel 1944, invece, i due convivevano alla perfezione e seppero salvare migliaia di innocenti. Non c’era tempo, allora, per polemizzare. Andrea Nicastro