Ilaria Maria Sala, La Stampa 15/4/2013, 15 aprile 2013
COREA, IN GITA AL 38° PARALLELO ASPETTANDO IL MISSILE DI KIM
Le tensioni fra le due Coree sono leggibili in parallelo nelle misure di sicurezza che vengono prese per portare i visitatori alla Dmz (la «zona demilita- Lrizzata» vicino al confine, in realtà piena di armi e mine) e alla Jsa, l’Area di sicurezza congiunta, metà in Corea del Sud e metà al Nord.
È una visita fuori dal comune, quella al 38° parallelo: turistica, prenotabile da qualunque albergo di Seul, con opzioni spiegate in una brochure colorata, e che rende l’armistizio fra le due Coree una gita come un’altra, dritta
nel cuore di uno dei luoghi più tesi che ci siano. Per chi vuole tornare indietro dopo pranzo, c’è la Dmz. Chi vuole passare un’intera giornata lungo il 38° parallelo – la linea di divisione fra la Corea del Nord e quella del Sud –, se è vestito «bene», non ha tatuaggi esposti e ha superato gli undici anni, può visitare anche il villaggio di Panmunjeom (che tecnicamente è al Nord, e si può solo vedere da lontano), e la Jsa.
Si parte di buon mattino, e man mano che ci si avvicina alla zona demilitarizzata si vedono barriere di filo spinato che emergono dalle acque del fiume Imijingang: come spiega Jang, la guida, parlando nel microfono dell’autobus turistico, «la Corea del Nord ha cercato di infiltrare il Sud con sommozzatori che si erano immersi nella parte del fiume a Nord. Quando ho fatto il servizio militare, ho passato due anni a guardare le acque del fiume».
La prima fermata è Imjingak, dove sono controllati passaporti e permessi. Qui c’è una locomotiva arrugginita, ferma dai tempi in cui si poteva andare in treno da Seul a Pyongyang e oltre, e alcuni monumenti alla pace e al dolore provato dalle famiglie separate dalla divisione della penisola.
Al posto di blocco, invece, decine di giornalisti e cameramen televisivi aspettano le ultime auto di chi sta lasciando Kaesong, il cui polo industriale, fiore all’occhiello della cooperazione fra Nord e Sud, è stato chiuso da Pyongyong nei giorni scorsi. Ogni tanto arrivano dei parlamentari e fanno mini-manifestazioni infilandosi fra le telecamere e le barriere del posto di controllo: chi vuole un dialogo con il Nord, chi vuole la linea dura. I cronisti, infreddoliti e un po’ annoiati, filmano tutto, e si buttano a corpo morto sull’auto del manager con le scatole di cartone e le valigie legate sul tetto, che ha chiuso in fretta e furia il capannone a Kaesong.
Alla Dmz si è in una specie di parco tematico della Guerra Fredda. Ci sono i «tunnel di infiltrazione» – tunnel scavati a 400 metri di profondità, che il Nord voleva utilizzare per un attacco a sorpresa a Seul ma furono scoperti e messi fuori uso grazie a disertori nordcoreani che ne rivelarono l’esistenza. Poi ci sono una piccola sala cinematografica, dove viene trasmesso un documentario su quanto avviene ed è avvenuto qui, un negozio di souvenir e alcuni monumenti. Poco più in là c’è la stazione di Dorasan, che ai tempi della politica «del raggio di sole» di Kim Dae-jun, presidente della Corea del Sud dal 1998 al 2003, era stata costruita per arrivare fino a Kaesong, ma che ora fa solo due fermate. L’intera area è piena di vocianti turisti cinesi, che si fotografano davanti a tutto urlando «uno, due, tre, melanzane!» – «qiezi», l’equivalente cinese di «cheese».
Mistero del turismo, la solennità del luogo e le tensioni attuali sono del tutto sprecate con i gitanti: una signora del Fujian, nel sud-est della Cina, dice che «no, nessun’emozione particolare, sono qui solo in visita», e resta anzi perplessa dalle domande che cercano di sondare la sua opinione sul fatto che la Cina è stata fondamentale per la separazione delle due Coree. Nel 1950, infatti, quando Kim Il Sung decise di invadere il Sud, convinto che il capitalismo avesse maturato nei cittadini il desiderio di comunismo, i suoi attacchi a sorpresa sulle prime ebbero successo. Poi entrarono in campo le truppe Onu, e in particolare quelle Usa, e Kim ottenne il sostegno cinese (anche Stalin aveva offerto sostegno, ma alla fine mandò armi ma nemmeno un soldato, lasciando che ci pensassero i cinesi). Nel 1953 l’armistizio fu concluso con un nulla di fatto (la separazione continua a essere lungo il 38° parallelo, come prima degli attacchi di Kim) ma un milione di morti, fra cui anche Mao Anying, primogenito di Mao Zedong. I feriti furono cinque milioni.
Dirlo a Feng, di Wenzhou, non provoca nessuna reazione: «Sì, lo abbiamo studiato a scuola. Noi la chiamiamo la Guerra di Resistenza contro l’America. Ma sono storie di altri tempi, no? Anche se i miei amici sono un po’ preoccupati che io sia qui». Sorride, gentile, scuote la testa alle altre domande, saluta e va a fare foto insieme agli altri della sua comitiva. Molti di loro spingono un globo terrestre di bronzo, spaccato in due proprio dove si trova la Corea, e fanno finta di cercare di riunificarlo – un po’ come le foto di quelli che raddrizzano la Torre di Pisa.
Il tunnel numero 3 può essere percorso fino in fondo – e tutti i turisti devono mettere un elmetto giallo, che li rende facilmente reperibili. Ancora con il fiatone, poi, possono andare ai telescopi, che consentono di scrutare oltre frontiera, e guardare se qualcosa si muove nel «villaggio della Propaganda», o a Kaesong e nella sua moderna periferia, dove giace, inerme, il polo industriale.
Poi si passa dal souvenir shop, dove chi vuole può comprarsi anche un pezzo di filo spinato arrugginito con numero seriale Dmz, si pranza e chi ha deciso di continuare la gita parte verso Panmunjeom.
La strada fiancheggia boschi pieni di avvertimenti contro le mine. Un nuovo controllo passaporti, un breve sguardo al «Ponte Senza Ritorno», dove furono scambiati i prigionieri di guerra, poi si arriva alla Freedom House, dove è obbligatorio firmare un documento in cui si dice che si è consapevoli di entrare in una zona «ostile, con rischio di ferimento o morte». Infine si aspetta, in fila per due, che i visitatori nordcoreani escano dalla zona di Camp Bonifas per poter entrare. Il nome, «Bonifas», è del militare Usa che fu ucciso proprio qui, attaccato con un’accetta dopo un litigio fra Nord e Sud nato per via di un pioppo, che andava potato per liberare la visuale.
Negli ultimi anni i soldati nordcoreani evitano per quanto possibile di incrociare quelli del Sud e degli Stati Uniti (tutti con i Rayban neri, affinché sia impossibile seguire il loro sguardo anche da punti di osservazione dalla parte nordcoreana), così si aspetta in fila che loro, e i loro visitatori, siano usciti dall’area. Per non «provocare» o rischiare di finire su fotografie nordcoreane che ridicolizzano la missione Onu, è proibito puntare, fare gesti inconsulti o espressioni facciali bizzarre. Si hanno a disposizione solo due minuti: passati a fissare i soldati immobili con i pugni serrati, l’unico nordcoreano in piedi fuori dal palazzo di fronte e la desolazione del luogo.
La baracca di ferro dei negoziati Onu è proprio sul punto di divisione, e il tavolo con sopra i microfoni è per metà al Nord e per metà al Sud. Qui di solito si dovrebbero tenere i dialoghi fra le parti in causa, ma ciò non avviene da tempo. La guida dice: «Questi sono i microfoni della hotline fra le due Coree», e li scuote: «Adesso sono morti. La Corea del Nord li ha tagliati». E sono proprio questi microfoni ormai inutili ad essere la parte più spaventosa di tutta la Zona demilitarizzata.