Marcello De Cecco, Affari&Finanza, la Repubblica 15/4/2013, 15 aprile 2013
IL GIOCO DELLE TRE CARTE SUI DEBITI DELLA PA
Le decisioni espansive della Banca del Giappone autorevolmente incoraggiate dal governo nipponico, unite all’imminente decisione espansiva della Bce e all’espansionismo stabile della Fed, mettono le autorità italiane in condizioni di approfittare, se riescono a non tergiversare, di una situazione di distensione monetaria internazionale che certo non durerà in eterno. Sarebbe veramente il caso di dirimere una volta per tutte, fissando chiaramente condizioni e tempi, il problema del rientro dalla vergogna pluriennale dei debiti della pubblica amministrazione nei confronti del settore privato. E’ questione che ha assunto, nell’attuale situazione industriale e bancaria italiana, una particolare gravità, ma che si ripropone in termini simili da decenni. Ricordo bene il 1964, quando lo stato smise di pagare i propri debiti commerciali, specie al settore edile, che non a caso figura a tutto rilievo anche oggi come il maggiore creditore, specie degli enti locali. Nel 1964 si sentiva ancora l’effetto della frenata monetaria del 1963. Il singolare metodo adottato dal governo per sostituirla con una politica fiscale restrittiva faceva perdere la faccia al settore pubblico come creditore: non l’avrebbe mai recuperata, non rifiutando di adottare la politica di venir meno agli impegni in molte altre occasioni. Il governo Monti, incaricato della ordinaria amministrazione mentre le forze politiche in tutta calma decidono su alleanze e elezioni presidenziali, ha ceduto alle richieste ultimative della Confindustria
e ha varato un programma di pagamenti ingente. Anche se non esaurisce l’arretrato non ha il tempo né la legittimazione a fare di più. Il finanziamento di parte dei debiti arretrati non si può così accompagnare a quella riforma della filosofia della gestione del bilancio pubblico che vede l’Italia orgogliosa di un sistema che condivide con pochi altri Paesi e che dà allo Stato un’organica possibilità di ritardare il pagamento di ciò che deve. E’ un primitivo strumento di politica economica, una clava per una economia che ha bisogno del bisturi, che consiste nel mettersi ai limiti della legalità per controllare le spese retroattivamente, quando le merci o i servizi sono stati consegnati dai produttori e la PA dilaziona il pagamento. Si genera illegalità: lo stato insegna al settore privato come venir meno alla parola data e questo ricambia fornendo beni e servizi di valore inferiore, caricando prezzi fuori dalla realtà, praticando la connivenza tra fornitori come norma malgrado le aste barocche. La situazione ricorda il dilemma della produttività del socialismo reale: voi fate finta di pagarci, dicevano i lavoratori allo Stato, e noi facciamo finta di lavorare. Uno sguardo alla raccolta dei prezzi dello stesso bene venduto, ad esempio alle amministrazioni sanitarie di regioni diverse o addirittura della stessa regione, lo prova ad abundantiam. Difficile tornare indietro quando il sistema si è affermato nel profondo, con conseguenze non solo sulla legalità ma sulla corruzione che la magistratura continuamente svela ormai dappertutto. La diffusione del fenomeno riduce il potenziale espansivo che un’uscita da esso può avere sull’economia perché riduce il livello della discrezionalità delle scelte degli amministratori, in presenza di una farragine di regole imposte per cercare di limitare le malversazioni ma anche solo i favori (certificazioni, dichiarazioni giurate). E perché riduce la possibilità di liquidare una somma così imponente di arretrato in tempi brevi senza bloccare le altre funzioni della burocrazia centrale e locale concentrandola sulla diminuzione dell’arretrato dei debiti da liquidare. Abbiamo sentito il ministro Grilli annunciare la messa a disposizione di 10 miliardi per pagare gli arretrati. Sono stati presentati decreti per regolarne le modalità di esborso. Ma quanto sarà effettivamente trasferito ai creditori nel 2013? Gli enti locali non si rassegneranno a vederseli passare sotto il naso senza che non si fermino a rinsanguare pro forma le loro esauste finanze e a dare agli amministratori locali, specie quelli sanitari, la possibilità di aprire i rubinetti dei pagamenti assicurandosi un brandello almeno per coltivare le proprie clientele. Le vie di fuga del governo utilizzando la Cassa depositi e prestiti per liquidare gli arretrati, si mostrano ostruite dalla scadenza dei vertici della medesima CdP, un problema che si pensa di risolvere mantenendo in carica gli amministratori attuali senza badare al fatto che saranno legittimati solo alla ordinaria amministrazione. La fertile immaginazione di burocrati e giuristi può alzare gran copia di ostacoli a rallentare il flusso della liquidità che effettivamente si sposterà quest’anno dallo stato ai fornitori. Ulteriore ostacolo può essere visto in alcune regole di contabilità dell’Unione europea. Così è destinata a continuare la commedia dell’arte dei rapporti tra autorità italiane, autorità comunitarie, banche d’affari straniere, società di rating e altri governi della Ue, oltre alla Bce. Essa consiste (e dimenticavo il Fmi), nell’emettere gravi avvertimenti alle autorità italiane sulla depressione forse terminale nella quale rischia di cadere la nostra economia, se la politica non interviene in maniera decisa a fermarla. Allo stesso tempo si fanno notare le serie ragioni che rendono inevitabile la prosecuzione del programma di rigore richiesto dagli accordi comunitari sottoscritti dal governo Berlusconi e che Monti ha fatto propri perché convinto della mancanza di alternative praticabili. Un circolo vizioso, dunque, che certo le misure sul ripagamento dei debiti di stato non interrompono.