Francesco Specchia, Libero 13/4/2013, 13 aprile 2013
LE TRE VITE DI LUC MERENDA
Dio, è un po’ come se Philip Marlowe si fosse fatto frate trappista.
«Osservi, osservi la plasticità del gigante che protegge la piccola pagoda» mi sussurra lui, accento parisien «il simbolo della cultura nelle sue grandi mani nere come l’anima del mondo moderno...».
Io osservo.
Osservo il mercante d’arte Luc Charles Olivier Merenda come s’osserva un bonzo avvolto da un rogo mistico. Però, mentre lui disegna a gesti nervosi la simbologia del Pavillon, l’opera del suo pupillo Li-Chen (un Botero impregnato di filosofia taoista e di manga, che griffa sculture da 250 mila dollari in su: a settembre affolleranno la parigina Place Vendôme, oggi spiccano da Moreschi, nella milanese San Babila); mentre – dicevo mi costringo a fare l’intellettuale, la memoria mi fa immaginare Merenda come il suo Commissario Verrazzano, uno sbirro anni 70 pronto ad infilarmi la canna di una calibro 22 alle narici. Luc Merenda, classe 43, è stato lo Jean Gabin del nostro poliziottesco anni ’70.
Oggi, tre vite dopo -attore, antiquario e talent scout-vive tra l’Europa e l’Asia.
Merenda, la sua vita -come dice va Verdone- più che vita è stata un’odissea. Racconti.
«Nato in Francia. Fino a 13 anni ho vissuto ad Agadir, in Marocco. Papà era artista matto di Lugano, di ascendenza nobiliari, inseguiva utopie, si occupava di architettura; a vent’anni si era fatto comprare un monastero in Provenza dove ospitare artisti squattrinati e un cinema dove importava film americani.
Non capiva la lingua, ma diceva che almeno non lo annoiavano quanto i film francesi..» Si narra che lei fosse già un furetto, e che la misero sotto sorveglianza dai gesuiti. Dopo tre mesi la cacciarono andò a studiare all’estero.
«Esatto. Cominciai a fare sport ( la boxe francese, il paracadutismo, la moto: tutto quello dove ci si poteva spaccare qualche ossa…) e trovavo gentilissimo, eclettico, forse il più grande attore italiano stimato all’estero» Un tantino esagerato? «No, le assicuro. Io ho incrociato e lavorato con i più grandi. Richard Conte e Mel Ferreri erano galantuomini straordinari; James Mason stava sulle sue ma poi si scioglieva.
Villaggio è il vostro Orson Wells: solo un genio che spacca il culo al sistema può creare Fantozzi.
Il regista Nando Di Leo era un gentiluomo coltissimo e di una professionalità mostruosa, non a caso Quentin Tarantino l’adora...» A proposito. Quentin Tarantino disse che se aveva fatto il cinema lo andai a New York per un master alla Columbia University. Mi mantenevo come cameriere. Finchè una modella con cui uscivo mi disse: sei bello, prova a fare il fotomodello.
Io lo ritenevo una cosa poco virile: e la mia ultima foto era quella della patente. Fu una tortura ma era meno faticoso che al bar.
Da lì entrai nel cinema» Ricordo. Primo film da protagonista fu il western Così sia,nel ‘72, era un pistolero belloccio. Che ricordi ha dello spaghetti western? «Bah. Diciamoche i cavalli mi piacevano ma non volevano essere montati da me, quindi mi buttai sul poliziesco. Però ho bei ricordi: Bud Spencer era l’unico che sapeva davvero menare, gli altri da Terence Hill a George Hilton, erano scarsini. Franco Nero ha fatto una carriera intelligente, anche se non salutava mai. D’altronde anche Steve McQueen con cui girai Le Mans era uno stronzo integrale, non voleva farsi fotografare con me, se non lo riconoscevano per strada, specie le donne dava di matto, d’altronde veniva dalla strada e sempre lì è rimasto» Una parola buona per tutti...
«Dico sempre la verità, è un mio difetto. Le aggiungo che un tipo insopportabile era Vittorio Gassman; bravo, ma quando gli proposero di fare con me Il bestione di Corbucci si rifiutò sdegnosamente (e tenga conto che al suo posto doveva esserci Lino Ventura). Tinto Brass addebitò al mio doppiaggio in italiano l’insuccesso di Action.
Bah. Invece Ugo Tognazzi lo spacciarono stupidamente per una storia d’azione. Per me, che avevo fatto poco prima lo sbirro corrotto in Il poliziotto è marcio di Di Leo, era una parte affascinante.
Scusi, che cosa c’è di affascinante in un filmaccio di serie B? ...C’è che, dentro, c’era raccontata la nascita quasi filosofica del terrorismo, delle Brigate Rosse. Raccontava il rapimento di un politico, caricato su un’auto in una piazza dell’Eur e giustiziato a raffiche di mitra. Anticipò il delitto Moro di sei mesi; ci trovammo tutti in casa la Digos. Lo sceneggiatore si scoprì che era un prof di filosofia di Padova affiliato alle BR» Esperienza tremenda.
Sì, mi colpì molto. Allora pensai di mollare i set. Dal primo Milano trema, nel 72 che fece 2 miliardi d’incasso mi davano sempre gli stessi ruoli. Perché ti pagano in proporzione degli incassi dell’ulti mo film. E io ero sempre il poliziotto; certe volte, ma al limite dell’eclettismo, il poliziotto corrotto, il giornalista o il mafioso che per loro era lo stessa famiglia...». Così si buttò sull’antiquariato...
Fare l’antiquario è la prosecuzione del lavoro d’attore, c’è la messa in scena, il gusto della storia, solo che non lavori con i vivi che ti rompono i coglioni. E, da antiquario, mi sono piazzato in un antico casale con scuderia annessa vicino Parigi. Casa mia è un grande suk dove tutto è vendibile, a parte i cani e le mie stampe giapponesi. Potrei vendere anche mia moglie e mia figlia. Ma non a un amico» Sicché, caro Luc, siamo alla sua terza vita, che lei ora spende dietro a questo piccolo taiwanese impegnato in Cina, con opere dal listino milionario, vendute poco ai privati e molto alle fondazioni.
«Sono tornato alle utopie libertarie promesse e mai mantenute da mio padre: il cerchio si chiude. Oggi Seguo Li-Chen, un ometto piccolino che sembra un monaco ma con un talento mostruoso, uno dei primi artisti della Cina. Sono – professionalmente quasi più innamorato di lui di quanto lo fossi di Brigitte Bardot. Almeno in lui vedo l’arte che s’illumina ogni giorno, e non sono costretto a tenergli la manina quando è depresso...».