Sebastiano Massina, la Repubblica 13/4/2013, 13 aprile 2013
NON PUNTO A FARE IL SEGRETARIO RENZI HA LE CARTE PER LA PREMIERSHIP"
Ministro Barca, giovedì pomeriggio lei ha preso la tessera del Partito democratico...
«Alle cinque meno dieci, per l´esattezza».
Sta prenotando il posto di segretario?
«No. Ma no sul serio. Voglio aprire un dibattito, con ´ambizione di far parte del nuovo gruppo dirigente. Punto».
Come mai non si era iscritto prima? Non condivideva l´idea del Partito democratico?
«Quando nacque, ebbi la sensazione che fosse forzata la confluenza delle componenti ex comuniste, ex democristiane e liberalsocialiste, e la non ricchezza del dibattito di questi anni mi aveva confermato quel dubbio. Invece nell´ultimo anno ho potuto constatare che nel Paese ci sono molti militanti che sono figli di questo mix culturale, e allora ho capito che il mio giudizio era sbagliato».
Nelle 55 pagine del documento con cui si presenta al Pd, lei delinea l´identikit di un partito di sinistra. Proprio qualche giorno fa, però, Walter Veltroni, che del Partito democratico è stato uno dei padri e forse quello più convinto, ha detto che il Pd ha un´identità «post-ideologica» e una «vocazione maggioritaria». La sua idea del nuovo Pd contraddice questo ritratto?
«La mia idea non contraddice l´identità del Pd ma la lettura che Veltroni ne dà. Io penso che il Partito democratico, se non si usano ipocrisie, sia un partito di sinistra. La componente ex dc è di sinistra: si chiamava così quando era nella Dc. Ed è di sinistra anche la componente laica. Quanto alla vocazione maggioritaria, non vi vedo alcuna contraddizione, visto che la sinistra governa a momenti alterni tutti i maggiori Paesi del mondo».
Posso chiederle come ha votato alle ultime elezioni?
«Ho dato un voto al Pd e uno a Sel».
Suo padre fu uno dei dirigenti del Pci. Ma nel pantheon dei suoi punti di riferimento politici c´è o no Enrico Berlinguer?
«Sì, per me Berlinguer rimane un punto di riferimento fondamentale».
Lui teorizzò il centralismo democratico. Lei vuole lanciare lo «sperimentalismo democratico». Ma che cos´è, esattamente?
«Lo sperimentalismo democratico è un metodo per l´assunzione di decisioni pubbliche che avviene con un forte ruolo dello Stato, ma con una fortissima consapevolezza da parte del centro della propria ignoranza. Quindi il presidio nazionale attiva un confronto locale che restituisce informazione e conoscenza. Non è una mia invenzione: è quello che sta facendo Obama negli Stati Uniti».
Ma questo riguarda il ruolo lo Stato, non il partito.
«Sì, ma come possiamo pensare di arrivare allo sperimentalismo democratico senza una mobilitazione delle persone, senza un partito che prema e pretenda dagli amministratori che ha fatto eleggere l´avvio di questo processo?».
Grillo risponderebbe: c´è la Rete, i cittadini possono decidere sul Web.
«Il Web può essere utile quando si tratta di dire sì o no, o quando ci si vuole far conoscere. Ma se affrontiamo una questione complessa, quando dobbiamo prendere una decisione articolata che richiede il confronto, nulla può sostituire quell´azione faticosa ma indispensabile che è il dibattito, la discussione faccia a faccia».
Torniamo al partito. Addio al finanziamento pubblico?
«Se il partito è quello che racconto io, la prima condizione è che il contributo degli iscritti e dei simpatizzanti deve essere determinante. Il finanziamento pubblico così com´è non può più continuare. Bisogna ridurlo, sganciarlo dalla dipendenza dai gruppi parlamentari e dargli nuove forme più trasparenti».
Lei dice di voler portare fuori i partiti dallo Stato, rompendo la «fratellanza siamese» di oggi. Significa che i partiti, a cominciare dal Pd, dovrebbero uscire dalla Rai e dalla sanità, giusto per fare due esempi?
«Assolutamente sì. Il partito deve restare assolutamente fuori dagli enti pubblici. E´ la cartina di tornasole: se non finisce la «fratellanza siamese», il nuovo partito non nasce. Se la gente si convince che andando al partito sta venendo a fare da copertura, perché ci sono altri che si stanno cucinando carriere destinate a terminare nelle aziende municipalizzate, i migliori non vengono».
E come pensa che sia possibile rompere il meccanismo della lottizzazione?
«Applicando una concorrenza trasparente che faccia prevalere la competenza e il merito e non l´appartenenza o la fedeltà. E stabilendo regole deontologiche assai rigide che portino anche all´espulsione dal partito di chi accetta o assegna un incarico calpestando i diritti di chi è più competente o più meritevole».
Glielo chiedo così: chiunque sia il successore di Bersani, secondo lei non dovrebbe candidarsi alla guida del governo?
«E io le rispondo che anche per il successore di Bersani, secondo me, dovrebbe valere la regola dell´incompatibilità tra incarichi di partito e cariche pubbliche. E´ chiaro?».
Chiarissimo. E Matteo Renzi? Che ruolo vedrebbe per lui nel nuovo partito?
«E´ talmente ambizioso l´obiettivo che ho in mente, che se forze come quella di Renzi non sono dalla parte del cambiamento diventa quasi impossibile realizzarlo».
Potrebbe essere, il sindaco di Firenze, un buon candidato premier?
«Una persona che si presenta alle primarie, e in 40 giorni agita il Paese, coinvolge tanti giovani e raccoglie un consenso così vasto dimostra di avere delle carte significative per fare questo mestiere».
Lei non sembra attratto da Palazzo Chigi. Perché?
«Governare è stata un´avventura straordinaria. Ho scoperto che Nenni si sbagliava: la stanza dei bottoni c´è davvero. Ma sono andato a sbattere contro l´assenza dei partiti. E allora mi appassiona la sfida di provare a cambiare il luogo dove si forma la volontà democratica: i partiti, appunto».
Ma se la convocasse il prossimo presidente della Repubblica, offrendole l´incarico di formare il governo, gli direbbe di no?
«Cercherei di convincerlo a non farlo».