Chiara Beria di Argentine, La Stampa 13/4/2013, 13 aprile 2013
LA "STANZA DELLA LIBERTA’" IL DESIGN ENTRA IN CARCERE
Il prototipo della stanza della libertà è di 4 metri per 2,70. Dentro ci stanno 2 letti e ripiani con pannelli scorrevoli; il tavolino pieghevole è appeso all’anta di un armadio, accanto c’è un piano di lavoro, da una finestra entra molta luce. In uno spazio separato è ricavato il bagno diviso tra zona water, lavabo con un piano d’appoggio per cucinare e la doccia.
«Ma dov’è la cucina? C’è solo un fornelletto a gas!», si lamentano alcune signore. «I detenuti non possono avere altro. Questo spazio ha la dimensione di una cella; chi ci abita ha vari bisogni: dal dormire a cucinare. E, dovrebbe avere un po’ di privacy ma poche prigioni hanno la doccia nelle celle. Noi abbiamo previsto 2 letti ma con il sovraffollamento (più di 65 mila detenuti per una capienza di 47 mila) in una cella così ci vivono in 4!», spiega con pazienza un uomo dalla dolce cantilena veneta.
Triennale di Milano, martedì 9 aprile. Nella bulimica settimana del Mobile e del design tra gli exploit dei nostrigrandimarchi,unamareadivisitatori e un vero tsunami d’arredi e oggetti questa scenetta che ha visto come protagonista il designer Aldo Cibic e il suo ultimo progetto chiamato «Freedom room», un modulo abitativo a basso costo ideato con un gruppo di detenuti del carcere di massima sicurezza di Spoleto, è un piccolo segnale di come le drammatiche condizioni di vita nelle nostre carceri (la Corte Europea ha più volte denunciato l’Italia per violazione dei diritti umani) siano ancora da troppi ignorate se non rimosse.
Non solo archistar e oggetti cult in edizioni limitate. «Per fortuna delle nostre aziende ci sono tanti cinesi, brasiliani e indiani che vogliono queste cose. Il rischio? L’autoreferenzialità. In giro vedo tante pippe!», avverte Cibic a lungocollaboratoreesociodelmiticoEttore Sottsass. «Il più grande regalo che ci ha fatto Sottsass è di non sentirsi degli specialisti di qualcosa ma di guardare la realtà che ci circonda. Ho sempre cercato di affrontare le criticità in modo progettuale mettendo insieme le diverse parti del problema. Non esiste una sola disciplina che risolve le cose».
In carcere, un anno e mezzo fa. Mentre stava lavorando tra l’altro ai progetti per il quartier generale di Staff International di Renzo Rosso a Noventa Vicentina e alle case a Londra e Instanbul di un cliente curdo, Aldo Cibic riceve una telefonata. A cercarlo è un giovane, illuminato industriale, Andrea Margaritelli (4a generazione della famiglia umbra proprietaria del megagruppo Listone Giordano). «Mi chiese d’aiutare Marco Tortioli Ricci, suo amico e consulente per l’immagine, dal 2003 impegnato con la coop sociale “Comodo” in corsi di formazione professionale nella Casa Circondariale di Spoleto. Disse di non sentirmi obbligato. Ho accettato subito».
A Spoleto, a differenza di troppe prigioni, si lavora; nella grande falegnameria si producono arredi per molte carceri. E Marco voleva organizzare un incontro tra un noto designer e Fernando, Massimo, Vincenzo, Leo e Ben Alì detenuti-falegnami di diversa età e diverso tipo di pena. Obiettivo: migliorare la qualità dei prodotti ma, soprattutto, far crescere in loro la coscienza che le cose potevano non solo farle ma anche disegnarle e pensarle. Dietro le sbarre Cibic scopre come quasi dal nulla i detenuti si inventano cento soluzioni («L’antenna tv? Una lattina fissata al manico di una scopa. Il forno per crostate? Rovesciano lo sgabello e creano la condensa con un panno umido attorno alle pentole») per migliorare un po’ la loro vita quotidiana.
«Ma più che d’oggetti e arte d’arrangiarsi abbiamo ragionato sul concetto di dignità in uno spazio minimo», dice il designer. Con la consulenza dei detenuti di Spoleto nasce così il progetto «Freedom Room». Spiega Cibic: «Vogliamo trovare una banca che finanzi una start-up per produrre in carcere questi moduli. Destinazioni? Stanze di alberghi lowcost, centri di prima accoglienza e celle più vivibili per un Paese più civile. Non serve altro cemento: siamo pieni d caserme e capannoni da riadattare. E’solo questione di scelte politiche. Ci vorrebbe un Franco Basaglia delle carceri!».