Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  aprile 14 Domenica calendario

«RAPITI PER LE FOTO ALLA CHIESA PROFANATA»

«Ci hanno fermato davanti a una chiesa profanata. Pensava­no che avremmo attribuito l’episodio a loro e allora mi han­no minacciato di tagliarmi le mani» rivela Susan Dabbous, la freelance liberata ieri assieme ad altri tre giornalisti italiani do­po dieci giorni di prigionia nel­la mani di Jabhat al Nusra il gruppo della guerriglia siriana, che gli stati Uniti hanno messo sulla lista nera delle organizza­zioni terroriste.
«Alcuni guerriglieri con il pas­samontagna pensavano che li avessimo ripresi e ci hanno fer­mati» dichiara al Giornale Elio Colavolpe, veterano dei fronti caldi. «Siamo stati interrogati separatamente e dopo qualche giorno hanno verificato che non eravamo delle spie» spiega il fotografo. Nella serata di ieri è rien­trato in Italia assieme ad Ame­deo Ricucci della Rai, il videomaker Andrea Vignali e la giova­ne freelance. I tre uomini «erano tenuti insieme in una stanza, li accusavano di essere dei ’kafir’ (infedeli,ndr),e che li avrebbero portati davanti a una corte isla­mica ’ per il giudizio e la punizio­ne’» racconta la ragazza fornen­do la versione più chiara. «Erano convinti che fossimo spie. Ad un certo punto abbia­mo temuto per le nostre vite, ma poi da mercoledì ci hanno detto che saremmo stati liberati. Ave­vano controllato il nostro mate­riale» dichiara Ricucci dopo la li­berazione.
Colavolpe, che in Afghani­stan, Libia e Siria ne ha viste tan­te sostiene: «Non userei la paro­la rapimento». Il problema è che lo ribadisce pure Staffan De Mistura, in tono quasi assoluto­rio. Il viceministro degli Esteri deve aver scambiato i jihadisti per una sorta di polizia con il barbone spiegando a SkyTg24 che i giornalisti italiani «sono stati trattenuti non rapiti». Lo stesso Ricucci ha fatto presente che non erano dell’Esercito libe­ro­siriano appoggiato dall’Occi­dente. Il loro comandante è Abu Mohammad al Golani, il nome di guerra di un veterano della guerra santa, che guida manipoli di combattenti stra­nieri provenienti da vari paesi responsabili di attentati suicidi. Ieri è trapelata la notizia che 140 albanesi da Tirana, dal Kosovo e dalla valle del Presevo, in Ser­bia, si sono uniti alla guerriglia siriana. Dieci sono già stati ucci­si. La scorsa estate Jabhat al Nu­sra ha rivendicato il rapimento e l’esecuzione di Mohammed al Saeed, un noto giornalista tv si­riano, filo regime.
I quattro italiani erano entrati nel nord ovest della Siria il 2 apri­le dalla Turchia. Due giorni do­po stavano filmando la chiesa profanata. Degli islamisti con il passamontagna li hanno subito sequestrati. L’unica ragazza del gruppo di giornalisti viene sepa­rata dagli altri in nome del Corano. «Siamo stati tenuti in diversi posti - racconta Ricucci - Non ci hanno torto un capello, ma era­vamo privati della libertà, una tortura psicologica». «Temevo che mi avrebbero ucciso, ho avu­to veramente molta paura», ag­giunge la Dabbous.
Il Giornale è in grado di rivela­re che si erano fatti avanti diversi mediatori. I primi collegati al Consiglio nazionale siriano, il di­viso cartello di oppositori in esilio. Poi ci hanno provato esponenti dell’Esercito libero, il grup­po armato appoggiato dall’Occi­dente. Non è servito a molto con i duri e puri di al Nusra. L’intervento esterno del Qatar, che fi­nanzia la guerriglia, sembra sia stato più incisivo, ma la soluzione è saltata fuori grazie alla me­diazione di alcuni religiosi dell’ area. L’autista e producer di Ri­cucci ha legami familiari nella zona. Uno dei religiosi che nego­zia è suo fratello. Stiamo parlan­do di sunniti probabilmente le­gati ai Fratelli musulmani. I servi­zi segreti italiani hanno favorito il tentativo, che è sfociato nella liberazione. «Uno di loro ci ha por­tato in macchina verso il confine con la Turchia - spiega Colavol­pe- dove avevamo appuntamen­to con la nostra guida per torna­re in Italia».