Gianni Riotta, La Stampa 13/4/2013, 13 aprile 2013
E NELL’AMERICA DI OBAMA LA DESTRA SI SCOPRE LIBERAL
"Noi gay andremo tutti all’inferno?» si chiede Elaine Sundby sul sito w w w. g a y c h u r ch.org, dedicato agli omosessuali cristiani. Sembrerebbe di sì, argomenta l’autrice del saggio «Calling the Rainbow Nation Home» su gay e fede, «visto che i conservatori cattolici ci piazzano tra le fiamme eterne e i colorati dimostranti alle Gay Parade cantano “Noi gay andiamo all’Inferno”». E invece no, e con dolcezza e perizia teologica Sundby spiega che Antico Testamento e Vangelo non dannano i gay.
Il vulcanico cardinale Dolan di New York, grande elettore di Papa Francesco, dichiara candido in tv all’ex braccio destro di Clinton, George Stephanopoulos, «Dico agli omosessuali vi amo, Dio vi ama, siete creati ad immagine e somiglianza di Dio e la Chiesa vuole la vostra felicità», pur fermandosi prima del sì al matrimonio gay. La grande chiesa di San Paolo, dietro l’angolo del Metropolitan Theatre, dove un tempo combattevano le gang romantiche di «West Side Story», celebra due volte la settimana funzioni religiose per i gay e www.gaychurch.org elenca città per città le parrocchie dove gli omosessuali sono benvenuti.
È molto cambiata l’America da quel giugno 1969, quando la polizia del Greenwich di New York, andata per arrestare i «ricchioni» al bar Stonewall di Christopher Street, locale di proprietà della famiglia mafiosa Genovese dove gli uomini potevano ballare tra loro, vide per la prima volta i gay ribellarsi e mettere in fuga gli agenti della Buoncostume abituati a tormentarli in cambio di mazzette. Ai tempi della caccia alle streghe l’accusa di omosessualità faceva il paio con quella di comunista, il senatore McCarthy usò la testimonianza di Whittaker Chamers per mettere alla gogna spie sovietiche e gay: l’ipocrisia del tempo venne provata con tristezza quando l’avvocato Roy Cohn, assistente di McCarthy, venne riconosciuto gay, morendo di Aids.
Oggi non solo i politici gay, nipoti del primo deputato che riconobbe la propria identità sessuale, il bravo e simpatico Barney Frank, i manager, gli intellettuali progressisti dei mille e mille – a volta interessanti, altre banali e propagandistici- corsi universitari Gay Studies, credono in una stagione di parità sociale tra generi e orientamenti sessuali. Anche conservatori repubblicani come il deputato Justin Amash del Minnesota si dicono a favore delle unioni gay. I liberal si mobilitano in nome dei diritti civili, nella rivolta di Stonewall i gay cantavano «We shall overcome» l’inno dei neri del reverendo King. La destra repubblicana è invece per la scelta gay in difesa della non ingerenza dello Stato, che già troppo pesa: meno tasse, meno regole sociali, implica anche che ciascuno può sposare chi vuole, omosessuale o etero.
L’astro della destra, senatore Rand Paul la pensa così e nella recente discussione sul tema alla Corte Suprema l’ok alle unioni gay dei liberali s’è incrociato con quello dei conservatori, unica differenza sui tempi, con le toghe a ponderare se il paese sia, o no, già maturo.
New York, di certo, lo è. La Grill Room, il ristorante progettato dai maestri architetti Mies van der Rohe e Philip Johnson, dove il vecchio Kissinger ha un tavolo fisso, ha chiuso per ospitare il banchetto nuziale del direttore di un celebre museo con il compagno. Ogni domenica il «New York Times» lancia le pubblicazioni dei matrimoni gay vip in città, i due sposi o le due spose, felici tra gli amici, che snocciolano successi e carriere per l’invidia delle coppie che non sono riuscite ad ottenere il titolo: la gelosia sociale che per anni ha roso gli etero, è condivisa dai gay, anche la vanità è un diritto. E lontano da New York, l’ex governatore del tradizionalista Utah, Jon Hunstman, scrive «Non c’è nulla di conservatore nel negare il matrimonio, una delle gioie della vita, ai gay», affidando l’editoriale alla rivista «American Conservative». Un centinaio di politici e intellettuali repubblicani hanno inviato un appello pro unioni gay alla Corte Suprema, tra le firme l’icona virile Clint Eastwood.
In attesa della Corte Suprema, la consapevolezza è che, stato dopo stato, le nozze gay saranno americane, secondo il vecchio proverbio, come la torta di mele. Il commentatore di destra Limbaugh si rassegna alla radio «Ha vinto la Mafia Gay», il suo collega O’Reilly fa il libertario «In America, ognuno fa a modo suo». Il compassato «Christian Science Monitor» spiega: «La valanga non si arresta. L’università dei gesuiti a Washington, la Georgetown, ospita solo coppie gay sul campus. Cambieranno, qualcuno li porterà in tribunale e otterrà l’integrazione».
Come sempre nella storia americana l’economia prepara i mutamenti, la politica li individua, il diritto li impone e codifica: ieri diritti civili, oggi nozze gay. Il passato resiste, Nicholas Coppola, cattolico di St. Anthony a Long Island, s’è visto togliere le deleghe in parrocchia per essersi sposato col suo partner. Il giudice della Corte Suprema. Scalia. ha una lunga antologia di citazioni antigay, dal chiedersi, con scarsa finezza, «sedersi su un palo è un diritto civile?» a giustificare la discriminazione sul posto di lavoro scrivendo «dopotutto si può non assumere chi tifa per la squadra di Chicago, è adultero o ha frequentato le scuole sbagliate… perché non i gay?».
Ma la storia s’è mossa, e come in tutti i movimenti del XXI secolo, cercarne la dialettica in Destra-Sinistra disorienta: contano Individui, Diritti Personali, Libere scelte Sociali ed Economiche, progressisti e conservatori trovano su ogni passaggio elementi di accordo, elementi di dissenso. Oggi in Usa, domani in Europa, i gay non andranno all’Inferno, ma sul codice civile, al governo, nei bilanci delle aziende, in chiesa.