Francesco Grignetti, La Stampa 13/4/2013, 13 aprile 2013
SENATO DELLE REGIONI CON POTERI LIMITATI"
I saggi hanno lavorato sodo. E non si può dire che non ci abbiano messo l’anima. Cinque lunghe sedute per redigere una relazione finale di 29 pagine sulle riforme istituzionali. Alla fine, però, la sensazione è che le posizioni siano rimaste ferme. Sono riemerse prepotenti le posizioni di partenza. Nonostante le belle parole, e magari molte convergenze sugli aspetti minori, sulle cose che contano è tutto un distinguersi.
Attenzione: ci sono alcune riforme che sembrano ormai entrate nel patrimonio genetico degli italiani. E dunque i saggi propongono assieme la fine del bicameralismo perfetto, distinguendo le funzioni tra Camera e Senato. Il primo avrebbe la funzione legislativa piena, l’indirizzo politico, la potestà di fiducia al governo. Il secondo diventerebbe una Camera delle Regioni, con potestà limitate, e i rappresentanti delle autonomie locali che mensilmente si vedono a Roma.
Uguale consonanza si registra sulla strategia delle sforbiciate. Ridimensionamento del Parlamento, che potrebbe scendere a 600 rappresentanti (480 deputati e 120 senatori: oggi sono 630 e 315), e taglio dei finanziamenti alla politica, ma conservando una buona parte dei rimborsi elettorali, (con il che storce il naso chi li voleva proprio abolire come grillini e renziani del Pd). Abbastanza d’accordo anche sulla fine delle circoscrizioni estere: gli italiani all’estero potrebbero votare per corrispondenza, ma senza le complicazioni della campagna elettorale in Oceania o nelle Americhe.
Sulla forma di governo, però, le posizioni restano distanti: il centrodestra chiede il semipresidenzialismo alla francese, il centrosinistra il premierato alla tedesca. Nomi non ce ne sono, ma ci vuol poco a capire che Gaetano Quagliariello ritiene il suo amato De Gaulle come modello da seguire per ovviare alla delegittimazione delle istituzioni e che Luciano Violante è invece convinto che un Quirinale fuori dalla mischia sia la carta migliore per raffreddare le ricorrenti tensioni italiche.
Si veda il ragionamento del primo: «L’elezione diretta del Presidente della Repubblica è più efficace nel fronteggiare la crisi di legittimazione della politica, rafforzando la democrazia, coniugando rappresentatività e efficienza istituzionale». Contrapposto all’analisi del secondo: «Il regime parlamentare è più capace di contrastare l’eccesso di personalizzazione della politica, più elastico... L’esperienza italiana, specie quella più recente, ha invece dimostrato l’utilità di un Presidente della Repubblica che, essendo fuori dal conflitto politico, possa esercitare a pieno titolo le funzioni di garante dell’equilibrio costituzionale».
Da una spaccatura simile discende una divaricazione netta sulle possibili leggi elettorali. «Il tema è connesso», ammettono i saggi. E quindi da una parte il rappresentante del centrodestra chiede un doppio turno alla francese; chi vuole il premierato è disponibile al ritorno del Mattarellum corretto oppure a un proporzionale alla tedesca, o ancora a un proporzionale di collegio alla spagnola. Esattamente le stesse divisioni che hanno impedito la riforma della legge elettorale nell’ultimo anno.
Su un punto i saggi sono tornati d’accordo: va corretto il pasticcio del federalismo all’italiana. Quindi da sfoltire «radicalmente» le materie su cui Stato e Regioni litigano, dando allo Stato la competenza esclusiva sulle grandi infrastrutture.
A proposito: l’esperienza della Tav ha fatto capire che bisogna ascoltare sul serio i cittadini prima di cominciare i grandi cantieri, con incontri e referendum consultivi. Sarà più difficile l’avvio, ma poi almeno si può procedere.